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il continuo della storia

1933: così morì la sinistra tedesca. E dopo 10 anni l'Spd risorse dalle ceneri

Siegmund Ginzberg

La socialdemocrazia aveva salvato il paese, ma gli elettori non le furono grati. Le divisioni di fronte a Hitler e alle sue supposte "dichiarazioni di pace" fecero il resto

Il nuovo governo di centrodestra aveva disperatamente bisogno di riconoscimenti internazionali. I conti erano in rosso. Senza credito in Europa si rischiava la bancarotta. Il nuovo capo del governo annunciò che avrebbe fatto un discorso in Parlamento per rassicurare l’Europa. Chiese che anche l’opposizione gli desse una mano a smussare le crescenti apprensioni nelle capitali estere. L’opposizione era più divisa che mai. Continuavano a litigare tra loro esattamente come facevano prima, anzi più di prima. 
I centristi presentarono una mozione in cui si approvavano le “dichiarazioni di pace” di Hitler, ma si chiedeva all’Europa “eguali diritti per il popolo tedesco”, cioè di smettere di prendersela con la Germania. A presiedere la seduta era il numero due del partito vincitore delle elezioni, Hermann Göring.

 

Non ammise altre mozioni. Il principale partito di opposizione, l’Spd (Sozialdemokratische Partei Deutschlands), era già spaccato in due. A differenza dei nazisti non avevano un leader, solo capicorrente. Una parte aveva già scelto di andarsene all’estero, fondare un centro in esilio, a Praga. Invitavano a boicottare la seduta. L’altra parte, maggioritaria, aveva deciso che finché Hitler e i nazisti si mantenevano nell’ambito della Costituzione repubblicana, si doveva condurre la battaglia in Parlamento. Dissero che erano “esagerate” le notizie apparse sulla stampa estera circa arresti, persecuzioni e atrocità a danno della sinistra e degli ebrei.

 

Erano persino usciti dall’Internazionale socialista perché questi non smettevano di criticare la Germania nazista. Speravano che i nazisti, in cambio dei buoni uffici diretti all’Europa, liberassero i rinchiusi nei campi di concentramento, consentissero nuovamente la pubblicazione dei giornali del partito, sospesi sine die. 22 deputati dell’Spd erano in esilio, 17 erano in galera, uno era stato ucciso, uno era passato al gruppo nazista. I comunisti erano già stati messi fuori legge da tempo, il gruppo dirigente si era rifugiato a Mosca, dove avrebbe pensato Stalin a farli fuori. Dei 65 deputati socialdemocratici presenti 48 votarono a favore della mozione centrista. Delle deputate donne, una, Toni (Antonia) Pfülf, disertò disgustata la seduta, e si suicidò poche settimane dopo.

 

La mozione “pacifista” del Centro era la trappola politica di Hitler tesa alla Spd, che si giustificò dicendo che non c’erano ragioni per non votarla

 

Erano caduti a capofitto nella trappola politica tesagli da Hitler. Si giustificarono sostenendo che non avevano ragioni per votare contro una mozione “pacifista”. Pace, ma anche rispetto internazionale per la Germania è sempre stata la nostra posizione, questa la dichiarazione di voto di Paul Löbe, nuovo presidente del Partito socialdemocratico. Al termine della votazione l’aula eruppe in un fragoroso applauso, guidato da Hitler in persona, “Era come se noi socialdemocratici, da sempre maledetti come figli prodighi della Germania, per un istante ci fossimo stretti al seno della Madrepatria”, avrebbe ricordato poi nelle sue memorie il socialdemocratico bavarese Wilhelm Högner. 

 

Succedeva il 17 maggio 1933. Hitler era stato nominato cancelliere il 30 gennaio. Alle precedenti politiche il suo Nasdap (Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi) aveva avuto poco più del 30 per cento. Il 27 febbraio c’era stato l’incendio del Reichstag, attribuito ad un comunista olandese fuori di testa, seguito dal primo giro di vite sull’opposizione. Il 5 marzo la Germania aveva rivotato con la pistola alla tempia, ma neppure quella volta Hitler era riuscito ad avere la maggioranza. Ebbe bisogno del voto dei 73 centristi per far passare il 24 marzo il cosiddetto “Decreto dei pieni poteri” per il quale gli occorreva una maggioranza dei due terzi (che non solo i nazisti non avevano ma non vedevano nemmeno col binocolo). “Legge a rimedio dell’afflizione sofferta dal Popolo e dal Reich”, il titolo della legge.

 

Hitler aveva solennemente promesso che i pieni poteri sarebbero stati provvisori, non avrebbero comportato modifiche alla Costituzione. Di fatto gli consentirono da quel momento in poi di decidere senza il Parlamento, e poi, alla morte di Hindenburg, concentrare sulla propria persona anche la carica di presidente della Repubblica, l’unico contrappeso rimasto, e mettere fuori legge tutti gli altri partiti, alleati compresi. 
Tutto si era svolto molto rapidamente, a rotta di collo, nel giro di poche settimane. Quasi che la Storia non volesse lasciare agli sconfitti nemmeno il tempo necessario a discutere il come e il perché di quel che era successo. L’Spd non fece in tempo nemmeno ad annunciare un congresso. Solo nell’aprile successivo, a frittata fatta e mangiata, avrebbero tenuto una specie di conferenza organizzativa.

 

Il vecchio, venerabile Kautsky continuava a dirsi convinto che il regime sarebbe ben presto crollato sotto il peso dell’incompetenza

 

Continuavano a discutere, anziché prendere decisioni, a litigare, tra di loro, e con i possibili alleati. Facevano fatica a riprendersi dalla batosta. Sembravano tanti pugili suonati che provano a rimettersi in piedi, ma non si rendono ancora ben conto da dove è arrivato il pugno. “Siamo stati sconfitti e dobbiamo ricominciare tutto da capo”, continuava a ripetere il leader storico Otto Wels, oscillando tra pessimismo cupo e sprazzi di ottimismo volontaristico. Insisteva che Hitler non sarebbe durato a lungo. Il vecchio, venerabile Kautsky si rendeva ben conto che “i nostri avversari sono ora fermamente in sella”, ma continuava al tempo stesso a dirsi convinto che il regime sarebbe ben presto crollato sotto il peso della loro incompetenza.  “La Germania non è l’Italia. Berlino non è Roma. Hitler non è Mussolini” aveva titolato il Vorwärts (che in tedesco significa “Avanti!”) poco prima che i nazisti chiudessero il giornale. 

 

Nell’ottobre del 1933, quando Hitler è ormai padrone assoluto della Germania, Rudolf Hilferding, lo studioso del Capitale finanziario, ex ministro dell’Economia, considerato una delle menti più lucide della socialdemocrazia tedesca, si rende ben conto che “ampi strati del popolo tedesco, se non la maggioranza, sostengono la dittatura, persino con entusiasmo”, che “i nazionalsocialisti hanno conquistato il potere come partito di convergenza anticapitalista e nazionalistica” cioè un mix inedito di nazionalismo e populismo che guarda a sinistra. Ma continua a cullarsi nell’illusione che “la politica economica del nuovo governo porterà rapidamente alla rovina dell’economia, e con essa al crollo del regime nazionalsocialista”. 

 

Cosa li aveva accecati? In che cosa avevano sbagliato? Nel difendere ostinatamente, sino all’ultimo, la democrazia e la Costituzione della Repubblica di Weimar di fronte agli opposti estremismi rivoluzionari (i comunisti da una parte i nazionalsocialisti dall’altra)? Nell’aver sostenuto lealmente la Grosse Koalition col Centro e il Partito liberal-democratico? Nell’essersi affidati ai princìpi, alla giustizia più che alla politica? Il ministro socialdemocratico della Giustizia della Prussia, Carl Severing (niente a che fare con Severino) aveva a un certo punto addirittura cercato di squalificare Hitler dalle elezioni con l’argomento che era nato in Austria, e quindi non era tedesco. 

 

L’errore fatale dei socialdemocratici era stato forse l’aver accettato di governare, mettendoci la faccia, con un proprio cancelliere, Hermann Müller, a fianco del Zentrum cattolico, e di altri due partiti non di sinistra, in uno dei momenti più difficili? Avevano salvato il paese, ma gli elettori non gli furono grati. L’Spd aveva subìto un’emorragia di voti e consensi tra i ceti popolari, a favore dei comunisti e dei nazisti. Senza contare che quel governo di larghe intese era poi scivolato, in un momento di crisi cruciale, su una buccia quasi ridicola: un dissenso sui contributi sociali (sul se dovessero gravare sulle buste paga o gli industriali). Chissà cosa diranno gli storici del futuro sul governo Draghi che cadde sulla spazzatura, sul se fare o meno un termovalorizzatore. L’Spd avrebbe continuato a donare sangue anche al governo successivo, quello del cancelliere Brüning, che, per evitare la bancarotta e una nuova disastrosa iper-inflazione, aveva fatto una dolorosa politica di rigore. Finì col soffocare la crescita, produsse milioni di disoccupati. 

 

Eppure c’era, nelle stesse file socialdemocratiche, chi li aveva avvertiti e pure indicato i rimedi. Vladimir Woytinsky, un immigrato che lavorava come esperto di statistica all’ufficio studi della Federazione dei sindacati, aveva elaborato un “Piano per creare posti di lavoro”. Per convincere i recalcitranti della necessità di un programma choc di lavori pubblici (una specie di Pnrr) aveva invitato a Berlino niente meno che John Maynard Keynes. Keynes rispose molto cortesemente, ma non venne. Pare che a scoraggiarlo furono pressioni del governo tedesco che temeva raccomandasse di svalutare il marco. Comunque troppo tardi. “Hitler aveva già trovato la cura contro la disoccupazione prima che Keynes finisse di spiegare perché si verificava”, il modo in cui trent’anni dopo l’avrebbe messa l’economista Joan Robinson.   

 

Nel ’33 era il tiro al piccione. Tutti davano addosso ai socialdemocratici, accusati di essere una fabbrica di burocrati slegati dalle “masse”

 

Nel 1933 era come il tiro al piccione. Tutti davano addosso ai socialdemocratici. Da ogni parte. Li accusavano di essere ormai solo una macchina di potere elettorale e amministrativo, una fabbrica di burocrati slegati dalle “masse”, dalle esigenze degli operai e dei poveri (i dirigenti politici e sindacali venivano chiamati spregiativamente “bonzi”). C’è chi continua ancora oggi a rinfacciargli di averle sbagliate tutte, di aver fatto le alleanze sbagliate, di non essere riusciti a formare una coalizione capace di fermare, anche elettoralmente, l’ascesa di Hitler.
Sulla carta, dando anche uno sguardo di sfuggita alle tabelle delle molte elezioni che si tennero negli anni immediatamente precedenti la nomina a cancelliere di Hitler, viene fuori che l’Spd era in quasi tutte il primo partito.

 

Sommando i loro voti a quelli del Partito comunista e a quelli dei partiti di centro e liberali, la maggioranza per governare l’avrebbero avuta loro. Così come sulla carta, sommando i voti di Pd, Terzo polo e M5S nelle ultime politiche viene fuori che avrebbero potuto vincere buona parte dei collegi uninominali, e quindi le elezioni. Naturalmente non funziona così. La politica non si fa sulla carta. Non ha molto senso piangere sul latte versato. La cosa più impressionante è che i candidati a una possibile coalizione alternativa a quella che portò al potere Hitler (nazionalsocialisti più conservatori di centro, allora considerati ancora più a destra dei nazisti) continuarono a litigare scompostamente, anche dopo la sconfitta. I comunisti davano dei “socialfascisti” ai socialdemocratici. I socialdemocratici erano convinti (non senza ragioni) che i comunisti fossero inaffidabili, che il loro obiettivo fosse solo indebolire l’Spd. Gli rinfacciavano di aver votato al Reichstag assieme ai nazisti per affossare i governi riformisti. 

 

La discussione astrusa proseguì dopo la disfatta. Qualcuno proponeva il “campo largo”, la maggioranza restava legata alla visione “di classe”

 

Una discussione piuttosto astrusa proseguì anche dopo la nomina di Hitler a cancelliere. Qualcuno proponeva di unire la sinistra. Altri proponevano una specie di “campo largo”. La maggioranza restava attaccata a una visione “di classe”: la borghesia (liberale o conservatrice che fosse) da una parte, la classe operaia dall’altra, il Mittelstand, la vecchia classe media, in mezzo. Ovviamente finirono per perdere sia gli uni che gli altri. Altri ancora proponevano che il glorioso Partito socialdemocratico si sciogliesse nel movimento. I sindacati pensavano di poter continuare a fare il proprio mestiere qualunque fosse il governo. Non ebbero il tempo di fare una discussione seria, di inventarsi nuovi leader, né di contarsi. Furono travolti, inghiottiti da sviluppi che non controllavano, e forse nemmeno capivano. “Fummo in balia degli eventi più di qualunque altro partito in qualsiasi altro paese”, avrebbe detto Wels, ormai in esilio, al Congresso dell’Internazionale socialista nell’agosto del 1933. 

 

Eppure l’Spd non era un partitello. Nel 1928, quando i nazisti erano ancora al 2,6 per cento aveva ottenuto da solo il 29,8 per cento dei voti. Governava la Prussia, che da sola aveva due terzi della popolazione e del territorio della Germania e altri Länder. Aveva 889 sindaci, decine di migliaia di consiglieri comunali. Pubblicava oltre 200 giornali. Aveva una presenza capillare sul territorio, con le sue 9.544 sezioni. Con qualcosa come 200.000 funzionari stipendiati era la principale azienda del paese. Aveva un milione di tesserati al partito, cui si aggiungevano i quasi 5 milioni di membri dell’Adgb (Allgemeiner Deutscher Gewerkschaftsbund, la Federazione generale dei sindacati), e i 3 milioni di membri del Reichbanner, l’associazione paramilitare di autodifesa, più una miriade di associazioni culturali, cooperative, associazioni sportive, circoli ricreativi, con milioni di soci. Avevano fior di quadri e dirigenti. Eppure il tutto si dissolse come neve al sole, in men che non si dica.

 

Ci vollero poco più di dieci anni perché passasse la bufera Hitler. E l’Spd risorgesse dalle ceneri. Senza dover cambiare nome: Partito socialdemocratico nella Germania federale, con appena un aggettivo in più, Partito socialista unificato, nella Germania est. Il sangue non è acqua. Spd si chiama ancora il partito del cancelliere Scholz
Una ricostruzione avvincente di queste vicende si può trovare in German Social Democracy and the Rise of Nazism di Donna Harsch (University of North Carolina Press 2009). Un resoconto puntuale dei dibattiti e della progressiva perdita del senso della realtà da parte dei dirigenti della socialdemocrazia tedesca (per non parlare degli altri) è nell’ormai classico La crisi di Weimar. Crisi di sistema e sconfitta operaia di Gian Enrico Rusconi. Sulle principali figure nella leaderhip Spd: Confronting Hitler: German Social Democrats in Defense of the Weimar Republic, 1929-1933, di William Smaldone. 

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