Foto Epa via Ansa 

Giornali che sbagliano

I potenti editori angloamericani che fecero propaganda per Hitler

Siegmund Ginzberg

Camuffati da pacifisti, erano isolazionisti e antisemiti. I giornalisti seguivano gli ordini di scuderia, nessuno avrebbe osato contraddire i desideri dell’editore

"No War This Year”, non ci sarà la guerra quest’anno gridava il titolo del Daily Express il 7 agosto 1939, pochi giorni prima che Hitler invadesse la Polonia. La gaffe sarebbe divenuta proverbiale. Fu immortalata anche in un film girato durante la guerra, nello spezzone in cui si vede una copia del tabloid galleggiare e poi affondare ignominiosamente in un Tamigi limaccioso. Non era un incidente di percorso. Faceva parte di una campagna sistematica, martellante, per convincere il pubblico britannico che il pericolo non veniva dalla Germania nazista bensì dai “poteri forti”, dai guerrafondai di casa, dagli ebrei e dagli amici dei bolscevichi che lo provocavano.


Hitler faceva di tutto per tenersi buona la stampa straniera. Dei giornali di casa non aveva di che preoccuparsi: appena divenuto cancelliere li aveva chiusi, messi al bando, espropriati o comprati tutti. La stampa estera invece era costretto a corteggiarla. “Voglio fare un appello alla stampa di tutto il mondo, perché non diano giudizi affrettati sugli eventi in Germania. Per favore giudicateci in base all’insieme dei fatti, non in base a incidenti isolati”. Questa la dichiarazione che il nuovo cancelliere, a capo di una coalizione di centrodestra (allora non aveva i numeri per governare da solo) aveva affidato al proprio ufficio stampa il 2 febbraio 1933, due giorni dopo l’insediamento. I fatti sono che in sole sette settimane la Repubblica di Weimar, la democrazia parlamentare che vantava “la più bella Costituzione al mondo”, sarebbe diventata una dittatura brutale.


Il giornale più prestigioso d’America era il New York Times. Anche se vendeva “appena” 472 mila copie, una frazione di quelle vendute dai tabloid. Uno studio ormai classico di Gary Klein ha dimostrato come riuscì a disinformare i propri lettori sui primi mesi del governo Hitler, trattandolo come un normale avvicendamento democratico, tacendo sistematicamente quel che avrebbe dovuto allarmare. Lo studio è intitolato “When the News Doesn’t Fit: The New York Times and Hitler’s First Two Months in Office”, facendo il verso a quello che è ancora oggi il motto sulla testata del giornale: “All the News That’s Fit to Print”, tutte le notizie che si possono stampare. Vengono analizzati i 444 articoli apparsi in quei due mesi sugli avvenimenti in Germania. Sette notizie al giorno, cinque volte lo spazio dedicato dai principali giornali concorrenti. Con la particolarità però che si tace, o ci si limita a sussurrare sommessamente quasi tutto quello che rischia di mettere in cattiva luce o potrebbe dispiacere ai nuovi padroni a Berlino.

 

Niente che possa contraddire l’immagine (o la speranza?) per cui Hitler sarebbe diventato moderato, pochissimo sulle “crudeltà raccapriccianti” denunciate dai corrispondenti di altri giornali americani, niente che contraddica la valutazione per cui “il nuovo regime non intende fare nulla di sconsiderato in politica estera”. Una ricerca ulteriore negli archivi riservati del giornale rivela che questi erano gli ordini che venivano dalla direzione e dalla proprietà. I proprietari del giornale, Adolph Simon Ochs, e il genero da lui fatto direttore, Arthur Sulzberger, erano ebrei, ma molto “laici”. Non volevano che si dicesse che ce l’avevano con i nazisti per partito preso. Niente di nuovo sotto il cielo: anche allora c’erano media che correvano generosamente in soccorso del vincitore.


Curiosamente la pericolosità di Hitler fu bellamente ignorata anche da un altro giornale, che si collocava all’estremo opposto, sia politico che geografico. Nei primi mesi del governo Hitler la Pravda (in russo “la Verità”) ignorò bellamente quel che succedeva a Berlino. I pochi commenti salutavano l’accesso al potere di Hitler come un avvenimento positivo, che liquidava l’avversario principale, la socialdemocrazia, smascherava l’odiata democrazia borghese e avvicinava la Rivoluzione comunista e l’inevitabile crollo del capitalismo. Avevano capito tutto. In effetti, nella Germania del 1933 l’estrema sinistra comunista, i socialisti e il centro si odiavano tra di loro più di quanto ciascuno di loro temesse Hitler. Gli ci vollero due anni per cambiare linea e caldeggiare l’unità antifascista.


Erano sei i proprietari di giornali che facevano il bello e cattivo tempo nell’opinione pubblica in Inghilterra e in America.  Le loro testate raggiungevano 16 milioni di lettori nel Regno Unito e 50 milioni in America. I cari, vecchi, paludati giornali dell’800 rappresentavano dei partiti. Questi nuovi giornali con circolazione di massa rappresentavano le idee, gli interessi economici, le ambizioni politiche (e giornalistiche: gli piaceva scrivere) dei loro proprietari. In comune avevano un entusiasmo senza limiti per “lo splendido isolamento” (non era ancora in voga il termine “sovranismo”) dei rispettivi paesi: il vecchio caro Impero britannico, la più giovane, scalpitante America. Il loro cuore batteva a destra. Tutti più o meno simpatizzavano per Hitler, in subordine per Mussolini.

 

Scommettevano che i nazisti avrebbero riportato l’ordine, fatto uscire la Germania dal marasma economico, messo a posto sindacati e sinistra che infastidivano anche in America. Si ergevano a difensori della “razza bianca”, minacciata dal “pericolo giallo”, dall’invasione di neri dall’Africa e soprattutto di ebrei dall’est europeo, dalla petulanza degli “stranieri” (a quei tempi “stranieri” era un sinonimo per “ebrei”). Si dichiaravano pacifisti a oltranza, dicevano di avere come missione impedire una nuova guerra tra nazioni “bianche”, a tutto vantaggio delle “razze selvagge”. Quanto al pericolo fascista, alle minacce naziste, sostenevano che si trattava di un’esagerazione, e comunque di una faccenda che riguardava la litigiosa e decadente Europa, non gli Stati Uniti e il glorioso Impero britannico che dominava gli oceani. Si arrangiassero, non avrebbero dovuto immischiarsi nei battibecchi e liti “tribali” del Vecchio continente. 


“Asse dei giornali” li avrebbe definiti un portavoce di Roosevelt, con riferimento all’Asse Berlino-Roma-Tokyo. Kathryn Olmsted, storica della University of California, gli ha appena dedicato un libro intitolato appunto “The Newspaper Axis: Six Press Barons Who Enabled Hitler” (“I sei baroni della stampa che hanno reso possibile Hitler”), Yale University Press 2022. Sembra di leggere della nostra attualità. C’è una guerra mondiale che incombe e c’è chi, ad aggressione nazista già iniziata, sostiene sulla stampa che gli Stati Uniti e l’Inghilterra dovrebbero restarne fuori. C’è chi continua a dare la colpa di tutto agli ebrei, che la guerra se la sarebbero cercata, anzi l’avrebbero provocata stuzzicando Hitler. C’è chi conduce una strenua campagna contro l’assistenza finanziaria e l’invio di armi all’alleata Inghilterra, poi anche all’alleata Unione sovietica, perché farebbero arrabbiare ancora di più i tedeschi, prolungherebbero la guerra. E c’è persino uno scandalo su chi, tra i giornali “pacifisti” e amici della Germania nazista, ha fatto affari o è stato nel libro paga di Hitler.


Lord Harold Rothermere, proprietario del Daily Mail, assicurava i suoi lettori che  tutte le voci sulla persecuzione degli ebrei erano fandonie, e che Hitler aveva “ridato l’anima alla Germania”. Scrisse che non se ne poteva più “delle vecchie comari di entrambi i sessi”, che continuavano a riempire le colonne dei giornali britannici con notizie di presunte “atrocità naziste”. I nazisti facevano bene ad agire con determinazione per controllare “gli elementi alieni” nel corpo della Germania. I suoi giornalisti seguivano gli ordini di scuderia (a quell’epoca si usava così, nessuno avrebbe osato contraddire i desideri dell’editore, ci si faceva in quattro per prevenirli). La sua grande firma da Berlino, G. Ward Price, scrisse nel 1938 (nel ’38! L’anno dell’Anschluss e dell’invasione della Cecoslovacchia!) che Hitler aveva un animo gentile , amava i bambini e i cani e aveva una spiccata “avversione alla guerra”.


Hitler ricambiò la cortesia. Lo invitò a cena a Berlino. Lo colmò di complimenti.  Disse che aveva la massima ammirazione per lui, lo considerava “un grande”, lo ringraziò “per tutto l’immenso bene che aveva fatto” alle relazioni tra Inghilterra e Germania. Qualcuno avrebbe poi insinuato che da allora in poi gli arrivarono da Berlino anche finanziamenti. Rothermere avrebbe sempre negato l’infamante accusa. Con l’argomento che lui, già ricco di suo, non aveva affatto bisogno dei soldi di Hitler. Insomma, ammiratore e propagandista di Hitler sì. Ma gratis. 


Non finì lì. L’intelligence britannica sospettava che girassero anche dei soldi. A quella cena aveva partecipato anche una signora che curava le relazioni pubbliche di Lord Rothermere in Germania. Stephanie Hohenlohe si faceva passare per principessa. Un dossier del MI5 la sospettava come agente nazista. Rothermere, di vent’anni più vecchio, subiva il suo fascino. Lui le passava uno stipendio di tutto rispetto. I guai cominciarono quando la licenziò. Lei si precipitò in Inghilterra per fargli causa. Era in possesso di uno scambio di lettere imbarazzante tra Rothermere, Hitler e Ribbentrop. Lui preferì pagare. 


Lord Max Beaverbrook, proprietario del Daily Express (due milioni di copie al giorno nel 1935, il tabloid che all’inizio dell’estate 1939 continuava ancora a sostenere che non ci sarebbe stata nessuna guerra), non era nazista. Ma ce l’aveva con gli ebrei. Commentando il Kristallnacht, il sanguinoso pogrom nazista nel novembre 1938, aveva invitato a evitare “recriminazioni” che avrebbero potuto irritare ulteriormente i tedeschi. Il primo titolo sulla vicenda fu: “Folla di saccheggiatori sfida Goebbels”. Insinuava che si trattava di una reazione spontanea all’assassinio di un diplomatico tedesco a opera di un ebreo polacco. Malgrado gli ordini in contrario dei leader nazisti. L’anno dopo il Daily Express fece anche peggio. Nel riferire il discorso del gennaio 1939 in cui Hitler minacciava la distruzione della razza ebraica in Europa, lo interpretò addirittura come un ramoscello d’ulivo all’occidente.

 

Nella sua corrispondenza privata Beaverbrook è ancora più esplicito. Il suo antisemitismo è convinto. Accusa gli ebrei di controllare i giornali concorrenti. E dire che si dichiarava “un conservatore indipendente”. Sfoggiava posizioni populiste, si batteva per aumentare i salari dei minatori. Era sincero: si vantava di aver creato il proprio impero mediatico “puramente allo scopo di fare propaganda”. Il più famoso tra gli editori ultrà americani è certamente Randolph Hearst. Con la catena di giornali da lui posseduti si rivolgeva da solo ad oltre 30 milioni di lettori, da un capo all’altro degli Stati Uniti. La sua notorietà la deve all’essere stato rappresentato in “Citizen Kane” (“Quarto potere” in italiano), il film scritto, diretto e interpretato da Orson Welles. Non è che vi faccia una bella figura: Welles lo considerava niente meno che “un precursore del fascismo americano”. Hearst capì benissimo che il protagonista del film era tutt’altro che eroico. Inghiottì la propria vanità e proibì ai suoi giornali anche di fare menzione del film.  


Nel panorama dell’editoria americana anche tre cugini: Robert McCormick, detto anche “il colonnello”, proprietario del Chicago Tribune, Joseph Medill Patterson del New York Daily News, e sua sorella Cissy Paterson, che aveva comprato e dirigeva con pugno di ferro il più importante quotidiano della capitale, il Washington Times-Herald. Cissy era l’unica donna del sestetto di editori di punta ultra-nazionalisti e isolazionisti sulle due sponde dell’Atlantico. Ma, a detta di molti, anche la più energica e “cattiva”. Ebbe a dire: “Non si può essere allo stesso tempo una signora e un buon giornalista. Io ho scelto di fare la giornalista”.


Tutti e sei si definivano “conservatori” e “isolazionisti”. Si battevano soprattutto perché il loro paese restasse fuori dalla mischia. “America First”, “Britain First”, e al diavolo libertà e democrazia, fuck Europe. La loro bestia nera erano gli “internazionalisti” (termine che evocava gli ebrei). Tutti e sei ce l’avevano a morte con Franklin Delano Roosevelt, con le sue riforme progressiste, con l’esecrato New Deal. Ce l’avevano soprattutto con il suo pallino di difendere la democrazia in Europa. Gli resero la vita difficile. Fosse stata una democrazia parlamentare, l’avrebbero sfiduciato in un batter d’occhio. Lo tenevano legato stretto con due leggi. L’una obbligava gli Stati Uniti a una neutralità assoluta. L’altra impediva aiuti militari agli alleati in guerra. Quando Churchill gli disse che l’Inghilterra non ce la faceva più, Roosevelt inventò un modo per aggirare le leggi capestro.

 

Si sarebbe limitato a “prestargli” le armi di cui avevano bisogno. “Se la casa del vicino va a fuoco, e lui ci chiede un tubo per spegnere l’incendio, noi non gli possiamo chiedere di pagarci in anticipo i 15 dollari che vale. Glielo prestiamo, a condizione che poi ce lo restituisca”, il modo in cui spiegò agli americani il marchingegno. E’ quello che ancora usano per armare e finanziare l’Ucraina. Ma ci sarebbe stato bisogno dell’attacco giapponese a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 per zittire i suoi sovranisti, pardon isolazionisti.

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