Economista (di nuovo) pop. John Maynard Keynes nacque a Cambridge il 5 giugno 1883, morì a sessantatré anni

Keynes è vivo e lotta con noi

Giorgio La Malfa
Non solo accademia. La lezione dell’economista inglese è ancora utile per capovolgere Bruxelles

L’economia è la scienza che mira a pensare in termini di modelli, unita all’arte di scegliere quei modelli che sono rilevanti per il mondo contemporaneo… L’obiettivo di un modello è distinguere i fattori semipermanenti o costanti da quelli che sono invece transitori o fluttuanti, così da sviluppare un modo logico di riflettere su questi ultimi e di capire le sequenze temporali cui essi danno vita in casi particolari. I buoni economisti sono pochi perché il dono di usare ‘un’osservazione vigile’ nello scegliere dei modelli efficaci, benché non richieda una tecnica intellettuale particolarmente raffinata, è tuttavia piuttosto raro”.

 

John Maynard Keynes torna più volte sul fatto che gli economisti dovrebbero aspirare (e riuscire) a essere socialmente utili – “competenti e umili come dei dentisti” – ma che unire capacità analitica e sensibilità pratica è una dote non comune. Nel 1923, nel “Tract on Monetary Reform”, osservava ironicamente: “Gli economisti si assegnano un compito troppo facile, ed anche inutile, se in mezzo alla tempesta sanno dirci soltanto che, quando la bufera sarà passata del tutto, il mare tornerà calmo”.

 

Un anno dopo, in un saggio su Alfred Marshall, scriveva: “Lo studio dell’economia non sembra richiedere alcun dono intellettuale di livello particolarmente elevato. Non è forse vero che, in confronto con i rami più alti della scienza e della filosofia, essa appare assai più semplice? Eppure i buoni economisti, o anche solo gli economisti competenti, sono uccelli rarissimi… Il paradosso si spiega, forse, con il fatto che un grande economista deve possedere una rara combinazione  di qualità. Deve avere uno standard elevato in vari campi e combinare talenti che non è facile trovare riuniti in una sola persona. Deve essere un matematico, uno storico, un uomo di stato, un filosofo – o almeno deve esserlo in qualche misura. Deve capire i simboli e usare le parole. Cogliere il particolare nel generale ed essere astratto e concreto esattamente nello stesso tempo. Deve studiare il presente alla luce del passato con il fine di guardare al futuro. Nessuna parte della natura dell’uomo o delle sue istituzioni deve sfuggire al suo sguardo. Deve essere determinato, ma anche disinteressato; distaccato ed incorruttibile come un artista, e tuttavia talvolta a contatto con la realtà come un politico”.

 

Era un omaggio all’ingegno di Marshall, sotto la cui guida Keynes aveva mosso i primi passi nello studio dell’economia, ma era anche l’autoritratto di un economista che, pur essendo dal 1909 fellow del King’s College a Cambridge, non accettò mai un impegno esclusivo nella vita accademica, preferendo dedicarsi da una parte alle attività pubbliche di consulenza al governo e a singoli uomini politici, dall’altra all’attività giornalistica.

 

“The General Theory of Employment, Interest and Money”, la cui elaborazione assorbì le energie di Keynes dalla fine del 1930 al febbraio del 1936, quando il libro venne finalmente pubblicato, rappresenta il culmine del suo impegno intellettuale, dove una nuova e originale analisi teorica del problema economico viene declinata in vista della sua utilizzabilità pratica nella politica economica. Dalla Teoria generale prese avvio quella che è stata chiamata la “rivoluzione keynesiana”. Fedele alla sua idea di fondo che gli economisti dovessero mirare a scrivere cose utili, Keynes si propose, come si espresse nella Prefazione, “di superare le profonde differenze di opinioni fra gli economisti che hanno, in questa fase, sostanzialmente distrutto l’influenza pratica della teoria economica”.

 

Ma per farlo dovette ricostruire dalle fondamenta la teoria economica “a prezzo di una lunga lotta per sfuggire… ai modi abituali di pensiero e di espressione… ed alle vecchie idee che ramificano, per quanti di noi sono stati allevati in esse, in tutti gli angoli della mente”.

 

Questo appello agli economisti perché si sforzassero di uscire dal campo ristretto delle formulazioni astratte – specialmente quelle di carattere matematico – per “sporcarsi le mani” con i fatti e con le passioni politiche degli uomini spiega il fascino straordinario che Keynes esercitò sugli economisti del suo tempo, e in particolare su quelli più giovani. Fascino che divenne irresistibile quando l’aumento apparentemente inarrestabile della disoccupazione e della povertà seguito al crollo di Wall Street del 1929 rese palese l’inanità delle teorie economiche tradizionali.

 

La forza del messaggio di Keynes fu quella di offrire una spiegazione convincente delle cause della crisi, accompagnata dal rifiuto morale di rassegnarsi davanti a questi problemi e dalla ricerca di risposte concrete e sperimentabili. Nel 1933, mentre andava prendendo sempre più forma nella sua mente la Teoria generale, in un opuscolo intitolato “The Means to Prosperity” scrisse: “Se la nostra povertà attuale dipendesse da una carestia o da un terremoto, se mancassimo di beni materiali e delle risorse per produrli, non potremmo ritrovare la via della prosperità se non attraverso il duro lavoro, l’astinenza e l’inventività. E’ ovvio, invece, che i nostri problemi hanno un’altra origine. Essi vengono da un cattivo funzionamento delle nostre menti… Per risolverli, non serve null’altro che un piccolo sforzo di pensiero. Ma solo quello sforzo potrà risultare efficace”.

 

Per i primi trent’anni del secondo dopoguerra è sembrato che l’interpretazione keynesiana del funzionamento delle economie capitalistiche fosse ormai la spiegazione e che le implicazioni che ne discendevano dal punto di vista della politica economica fossero solide e indiscutibili. Poi, dalla metà degli anni settanta del secolo scorso, la rivoluzione keynesiana ha perso rapidamente mordente e vigore e sono ritornate in auge, pur se confezionate in forme apparentemente nuove, le idee che la Teoria generale aveva spazzato via. Un ritorno al passato che ha fatto sì che la scienza economica perdesse nuovamente di vista, nel prevalere dei modelli formali, la sua vera ragion d’essere, quella di contribuire a risolvere i problemi dell’umanità.
A partire dal 2007-2008 il crollo del mercato dei subprimes negli Stati Uniti, l’ondata dei fallimenti bancari, l’improvviso venir meno dei canali di circolazione della moneta, il diffondersi della crisi in tutto il mondo e il panico evidente dei governi e delle istituzioni internazionali hanno incrinato le certezze pre e post keynesiane, di cui si erano nutriti in questi ultimi decenni il mondo accademico e i governi.

 

Sebbene non si sia avuto “il ritorno del Maestro” auspicato da Robert Skidelsky, né sia stato restituito alle politiche keynesiane il ruolo che esse avevano svolto dopo la fine della seconda guerra mondiale, qualcosa però è successo: il clima è cambiato, il discorso è di nuovo aperto. Se la legittimità e la necessità di un dibattito sul funzionamento dei sistemi economici di mercato e sulle conseguenti politiche economiche si sono rese evidenti ovunque, questo vale ancor di più in Europa, dove quello che può chiamarsi “il consenso antikeynesiano” ha assunto un carattere particolarmente dogmatico, fino a essere iscritto nella lettera stessa dei trattati istitutivi dell’Unione economica e monetaria dell’Unione europea.

 

Questo libro nasce proprio con l’obiettivo di contrastare l’idea che il pensiero keynesiano costituisca un episodio circoscritto nella storia del pensiero economico del Novecento – opinione affermatasi nelle università americane a partire dagli anni settanta del secolo scorso e tuttora largamente dominante. Vuole invece mostrare che l’analisi di Keynes delle luci e delle ombre dei sistemi economici di mercato è assolutamente attuale e che da essa discende l’esigenza di un intervento pubblico correttivo delle tendenze spontanee di questi sistemi. In queste pagine non mi propongo semplicemente una riesposizione delle teorie di Keynes, né una rivendicazione della loro validità alla luce delle vicende economiche più recenti. L’obiettivo è di spiegare con la massima accuratezza in che cosa l’analisi di Keynes si differenzi da quelle degli economisti classici che lo avevano preceduto e come Keynes sia riuscito a sfuggire ai “modi abituali di pensiero e alle vecchie idee” che circolavano allora e hannoripreso a circolare oggi.

 

Per compiere questo recupero è indispensabile comprendere come e perché le nuove idee di Keynes si siano diffuse così rapidamente all’indomani della pubblicazione della Teoria generale, ricostruire il modo in cui egli sia pervenuto a riformulare l’interpretazione del funzionamento del sistema economico e individuare le idee di fondo sul capitalismo che preesistevano alla elaborazione della Teoria generale. I primi tre capitoli seguono questa traccia. L’ultimo tocca invece il tema della rilevanza del pensiero keynesiano rispetto alle discussioni politiche che si svolgono nelle società contemporanee. Sessanta o settant’anni di battaglie fra economisti “classici” e “keynesiani” non hanno fornito una risposta univoca al quesito su quale delle due interpretazioni approssimi meglio la realtà del funzionamento dei sistemi di mercato, ovvero se un sistema di mercato lasciato a se stesso tornerebbe in tempi ragionevoli verso un equilibrio soddisfacente o se invece sia da auspicare un intervento cosciente della mano collettiva; in altre parole, se sia la domanda o l’offerta a determinare l’equilibrio macroeconomico.

 

[**Video_box_2**]E dunque? La conclusione sarà che la scelta fra attivismo nella politica economica e inerzia è una scelta di carattere essenzialmente politico. Per molti decenni il discrimine fra destra e sinistra è stato segnato dal giudizio di fondo sull’assetto finale che avrebbe dovuto avere il sistema economico dal punto di vista del controllo sui mezzi della produzione. Da un lato i sostenitori del capitalismo; dall’altro i sostenitori della necessità di una radicale trasformazione delle basi stesse del sistema economico nel senso del socialismo. Poco importava la distinzione, nel campo dei sostenitori del capitalismo, tra i fautori del laissez-faire assoluto e quanti invece auspicavano interventi correttivi da parte dello stato; così come poco importava la distinzione, nel campo dei fautori del socialismo, fra quanti volevano pervenire al socialismo per via democratica e quanti ne auspicavano l’avvento per via rivoluzionaria.

 

Oggi, venuta meno l’alternativa radicale fra capitalismo e socialismo, il discrimine fra destra e sinistra deve porsi altrove, nel seno stesso del campo, ormai unificato, dei sostenitori del capitalismo. Proprio qui il pensiero keynesiano può rivelarsi utile, non solo come tecnica di politica economica, ma anche come strumento per sceverare politicamente fra posizioni più o meno conservatrici. Ed è questo – è la mia conclusione – lo spartiacque che separa destra e sinistra in Europa oggi. La destra ha dalla sua parte la lettera dei Trattati Europei, soprattutto del Trattato di Maastricht, e la filosofia che impronta l’operato delle istituzioni europee, dalla Commissione di Bruxelles alla Bce. La sinistra ha dalla sua l’evidenza della scarsa crescita dell’area dell’euro, l’elevatissima disoccupazione, le ineguaglianze sociali sempre più accentuate, e ha quindi titolo per ingaggiare una battaglia volta a cambiare le leggi e la filosofia delle istituzioni europee, avendo, nelle politiche keynesiane, il più forte e organico complesso di proposte programmatiche.

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