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Dalla Russia all'Iran

La regione russa del Daghestan reagisce con violenza alla mobilitazione di Putin

Cecilia Sala

I daghestani bloccano fisicamente le strade e chiedono la restituzione di centinaia di giovani già prelevati per essere mandati a combattere in Ucraina: una protesta che incrocia vecchi rancori e mette in luce le crepe del regime. E anche nel Kurdistan iraniano, le mobilitazioni contro il trattamento riservato alle donne sono andate oltre, trasformandosi in una rivolta dei curdi contro le discriminazioni etniche

In Russia si fa molta attenzione a quello che sta succedendo in Daghestan perché la regione da tre milioni di persone sta reagendo con violenza alla mobilitazione ordinata da Vladimir Putin. Nelle due metropoli più sofisticate della Russia, Mosca e San Pietroburgo, le proteste in piazza sono più deboli e seguono uno schema consolidato: qualcuno lancia uno slogan come “No alla guerra” oppure “Putin in trincea”, viene afferrato dagli uomini delle forze di sicurezza e portato via mentre il resto del pubblico guarda impotente e, al massimo, filma tutto con il telefonino. In Daghestan negli ultimi due giorni si è visto qualcosa di diverso, i manifestanti picchiano i poliziotti che si fanno sorprendere da soli e non scendono in strada per manifestazioni di testimonianza.

 

I daghestani bloccano fisicamente le strade e chiedono la restituzione di centinaia di giovani già prelevati per essere mandati a combattere in Ucraina. Ci sono scontri con la Guardia nazionale e appelli sui canali telegram locali a compiere “operazioni partigiane”. Succede a Machackala, la capitale, dove il controllo delle autorità è più forte, e in altri centri come Endirei, dove la polizia ha sparato in aria, e poi a Chasavyurt. Sarà interessante capire meglio cosa succede sugli altipiani, dove i manifestanti sono in vantaggio. 

Un’opposizione così esplicita e aggressiva in un paese dove non si può nemmeno pronunciare la parola “guerra” non si era ancora vista. Ieri le donne in piazza si rivolgevano con queste parole ai poliziotti: “Perché state prendendo i nostri figli?  Qualcuno ha forse attaccato la Russia? No, siamo noi che abbiamo attaccato l’Ucraina, è la Russia che ha attaccato l’Ucraina. No alla guerra!”. La narrazione imposta dal Cremlino, fatta di governanti nazisti da estirpare e minacce occidentali da sventare, non sembra che abbia attecchito in Daghestan. La piccola regione caucasica a maggioranza musulmana è sempre stata refrattaria al potere centrale fin dai tempi dell’Unione sovietica e in questi mesi di conflitto è stata uno dei principali serbatoi di reclutamento per le Forze armate russe: ha già visto molti più morti e feriti e per questo in Daghestan hanno le idee più chiare che altrove su come stia andando l’operazione speciale di Putin.

 

Un’altra delle regioni più povere del paese, la Siberia, ha offerto alla guerra moltissime reclute che avevano bisogno di uno stipendio e non sembra un caso che anche i siberiani siano particolarmente ostili alla mobilitazione. Ieri mattina un ragazzo è entrato in un centro di reclutamento a Irkutsk e ha sparato con una pistola all’ufficiale che dirigeva le operazioni di arruolamento coatto –  la città è a cinquemila chilometri da Mosca e anche la distanza fisica aiuta i siberiani a non credere a tutto ciò che dice il Cremlino. 

Durante le crisi ci sono aree dove le crepe di un regime si vedono prima o meglio, in questo periodo succede contemporaneamente in Daghestan per Mosca e nel Kurdistan iraniano per Teheran. La regione dell’Iran dove le proteste sono più forti è il Rojhilat, l’area della minoranza curda – circa il dieci per cento della popolazione – nell’ovest del paese e vicino al confine con l’Iraq e la Turchia. La prima ragazza morta mentre era nelle mani della polizia religiosa, Mahsa Amini, in realtà si chiamava Jina, che è un nome curdo, ma sui documenti era Mahsa perché il governo centrale non ama i nomi delle minoranze. Le manifestazioni cominciate dopo la morte di Jina sono contro il trattamento riservato alle donne iraniane, ma nell’ovest si sono trasformate in una rivolta dei curdi contro le discriminazioni etniche e la stessa cosa era successa anche nel novembre del 2019. Non sono proteste qualsiasi, i manifestanti venerdì hanno preso il controllo di una cittadina di quarantamila abitanti grande come Cuneo che si chiama Oshnavieh: le forze di sicurezza iraniane sono state costrette a indietreggiare e poi, inseguite da una folla che lanciava bottiglie incendiarie, sono scappate da Oshnavieh. Una colonna di militari ha ripreso il controllo della città domenica.
 

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