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TRA VIRGOLETTE

Quel che resta di Mosca

Le domande inevase, le strade che non portano più all’Europa, le  speranze nel racconto di un corrispondente

Cosa sta succedendo in questo paese, un paese che sta conducendo una guerra per me inconcepibile, un paese che conosco da così tanto tempo e che malgrado ciò capisco così poco?”, chiede Christian Esch, corrispondente da Mosca dello Spiegel, ad Alik, un giovane in abiti civili che lo “accoglie” in una stanza senza finestre dell’aeroporto Sheremetyevo e che presumibilmente è un agente dell’Fsb, i servizi segreti russi. Esperto di Russia e  Unione sovietica, Esch vive nella capitale russa da quattordici anni, ma ha trascorso gli ultimi mesi in Ucraina. Sei mesi dopo l’invasione, il giornalista racconta sul settimanale tedesco il suo ritorno in Russia nell’articolo “Come la guerra di Putin ha cambiato la mia Mosca”.   


Le Guardie di frontiera trattengono il passaporto di Esch, poi gli chiedono se è stato a Bucha e cosa ne pensa dell’“operazione militare speciale”. Alik si accontenta di un “sì” alla prima domanda e un “la guerra è terribile”, alla seconda: dopo tre ore di fermo, è finalmente fuori dall’aeroporto, a Mosca. Il giornalista racconta di come durante il suo tempo trascorso nella capitale russa si sia “assunto il compito di correggere la geografia mentale dei suoi amici tedeschi”, per cercare di far capire loro quanto la distanza dalla città fosse la stessa di molte altre città europee, e quanto la Russia non fosse poi così distante. Eppure oggi, dice Esch, “Putin e la politica mondiale mi hanno smentito e Mosca è diventata un luogo lontano. I voli diretti dalla Germania non sono più disponibili. Il mio volo Aeroflot da Antalya a Sheremetyevo ha fatto una deviazione di cinque ore verso il confine kazako per evitare lo spazio aereo sopra la Russia meridionale. Mosca è ora un volo a lungo raggio”.


Christian Esch descrive anche lo spazio pubblico di Mosca, “libero dal clamore della guerra”: la lettera “Z”, il simbolo di propaganda per l’operazione di Putin, si vede a malapena, mentre per le strade si vede raramente il ritratto di qualche soldato russo. E’ solo attraverso la radio e la televisione che ci si rende conto del fatto che la Russia stia conducendo una guerra contro un suo paese vicino. La radio di casa, un tempo sintonizzata su Eco di Mosca, il forum della Mosca liberale e d’opposizione, ora è stata sostituita da Radio Sputnik, una stazione di propaganda del media statale Russia Today (Rt). Era la “colonna sonora” della sua vita quotidiana a Mosca. Il giornalista incontra Alexei Venediktov, che ha diretto Eco di  Mosca per oltre 24 anni e la cui ambizione era quella di non dividere il mondo in amici e nemici, di camminare tra governo e opposizione, di mediare tra le parti. Venediktov beveva assieme a Putin, conosceva i ministri, era amico del portavoce di Putin e del capo di Rt, Margarita Simonyan. Sulla sua stazione radiofonica, apriva regolarmente la parola a bellicosi oppositori della democrazia, come lo scrittore Alexei Prokhanov. “Per me Venediktov è l’epitome della Mosca che è morta per sempre il 24 febbraio: una città in cui la democrazia era stata abolita, ma in cui coloro che erano al potere e l’opposizione continuavano a interagire socialmente. I legami non erano stati completamente interrotti. Ora la Russia delle tinte e dei semitoni è scomparsa, una volta per tutte. Il regime esige l’univocità, l’impegno. Venediktov ha perso il suo ruolo”, scrive Esch.


Il 24 febbraio Venediktov è andato in studio la mattina presto e ha commentato: “Questo avrà conseguenze disastrose per il mio paese. Putin ha commesso un errore colossale”. Se prima il direttore della radio era considerato un nemico, quindi in una categoria tollerabile per Putin, ora è in quella dei traditori – e al Cremlino non esiste pietà per i traditori. All’inizio di marzo, Venediktov portò a Simonyan le foto dei bambini ucraini uccisi in guerra. Le disse: “Sono bambini come i tuoi”. Lei rispose che “i nazisti si sono bombardati da soli” e che quella era “tutta una messa in scena”. Secondo Venediktov,  la mancanza di empatia di Simonyan nei confronti dei bambini ucraini riflette la società russa in generale. “Undici milioni di famiglie russe hanno parenti stretti in Ucraina. Ciò significa che ci sono quaranta milioni di persone che hanno madre, padre, fratello, sorella o nipoti lì. E poi un tale sostegno alla guerra. Com’è possibile?”. Per Venediktov la propaganda da sola non basta a spiegarlo. “C’è qualcosa di negativo che scorre nel profondo delle persone. Si tratta del fratello minore ucraino, che viene visto come un traditore perché vuole vivere meglio di te”, dice.  Secondo Esch invece sia i giovani sia gli anziani sembrano avere una scarsa comprensione dell’Ucraina. “I più giovani hanno il vantaggio di esserne almeno consapevoli. Putin ha 69 anni. Non ha idea di quanto poco conosca l’Ucraina”.


Il giornalista racconta anche il suo incontro con una delle poche persone che hanno davvero desiderato l’attuale conflitto: Alexander Borodai. Membro della Duma con il partito Russia Unita del Cremlino, Borodai era stato dichiarato “primo ministro” della neonata “Repubblica popolare di Donetsk” nel 2014. Conservatore e strenuo difensore dell’impero russo, Borodai avrebbe preferito estendere la guerra a tutta l’Ucraina. Per persone come lui, è stata una delusione che la Russia abbia accettato gli accordi di cessate il fuoco di Minsk nel 2014 e nel 2015. Oggi invece, Borodai sta vedendo i suoi sogni realizzati: “Per me è iniziato un periodo importante e, sì, piuttosto gioioso”. E’ a capo dell’Unione dei volontari del Donbas, un’organizzazione di veterani che attualmente mantiene tre battaglioni di 400 uomini e due distaccamenti di 250 uomini in Ucraina, e ammette al giornalista che 1.500 dei suoi uomini sono già caduti – un numero molto alto. Il ministero della Difesa russo non comunica i dati sulle vittime da quattro mesi, e la Cia qualche mese fa ha dichiarato che tra i soldati russi i morti fossero circa 15 mila mentre ieri, per la prima volta dall’inizio dell’invasione, il comandante in capo delle Forze armate di Kyiv, Valeri Zaluzhny, ha comunicato, quasi per errore, il numero delle vittime militari ucraine: 9 mila uomini.


Borodai si riferisce sempre all’Ucraina come “la cosiddetta Ucraina”: per lui non è uno stato, ma solo una colonia dell’occidente che deve essere “riunita al resto della Russia”. Ammette, naturalmente, che ci sono ucraini che non vogliono questo. Ma dice che con il suo cognome ucraino, ha “almeno lo stesso diritto di decidere su questo come uno Zelensky, che non è nemmeno ucraino di sangue”. “Un tempo tutto questo era il sogno di un outsider radicale. Ma ora è il sogno della leadership russa”, scrive Esch.


A Ekaterinburg, la città natale del predecessore di Putin, Boris Eltsin, c’è il Centro Eltsin, un museo che offre una finestra sul passato della Russia prima di Putin, ma anche su una Russia come sarebbe potuta diventare senza Putin. “Come potrebbe essere un futuro Centro Putin? Che ruolo avrà l’invasione dell’Ucraina? Quale messaggio darà un Putin stanco ai suoi cittadini alla fine della mostra?”, si chiede Esch. Se il futuro degli anni di Eltsin sembrava aperto ora il paese sembra destinato a un lungo declino. Lena, una collega del giornalista, afferma con infinita tristezza: “Il periodo più bello della nostra vita è alle nostre spalle”.


Anche lo stesso Centro Eltsin potrebbe non avere più un posto nella nuova Russia. A febbraio ha pubblicato un appello contro la guerra, che ha dovuto essere tolto dal sito web. Viene spesso attaccato dalla televisione di stato, e tutta Ekaterinburg è un “centro di disgustosi liberali”, secondo un conduttore di talk show fedele a Putin.  Evgeny Roisman, ex sindaco della città, è uno dei pochi critici di spicco del Cremlino a non essere ancora in carcere e il più accanito oppositore della guerra nel paese. “Spero che non lo mettano in prigione”, dice Esch a un collega durante una corsa di gruppo organizzata da Roisman come atto di protesta e coraggio. “E spero che non lo uccidano”, risponde il collega. “Anche la speranza in Russia si è ridotta”.

 

A cura di Priscilla Ruggiero

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