Le atrocità non credute. Dall'Olocausto alla guerra in Ucraina, un testo del 1944 tuttora attuale
L’incubo di Koestler che denunciava lo sterminio degli ebrei: essere in pericolo di vita, gridare aiuto ma non avere risposta dai passanti. Il rifiuto di accettare la dimensione dell’orrore. Quando la storia si ripete
Quando un giornale americano pubblicò per la prima volta, nel 1944, l’articolo che potete leggere qui sotto, lo scrittore ungherese Arthur Koestler era da tempo fuggito dalla Germania nazista, aveva abbandonato il Partito comunista dopo le purghe staliniane, si era rifugiato a Londra scappando dalla Francia occupata e aveva già scritto quello che sarebbe diventato il suo più celebre romanzo, “Il buio a mezzogiorno”. Questo testo e altri, attraverso i quali interpretava in diretta il conflitto mondiale in corso, furono raccolti poco dopo in “Lo Yogi e il Commissario”, che uscì nel 1947. “Vi si parla dell’atteggiamento degli uomini davanti alla guerra – scriveva Renzo Foa nell’introduzione all’edizione italiana del 2002 pubblicata da Liberal libri –: non tanto delle trincee e delle incursioni, non tanto di coloro che potremmo definire persone comuni, con le loro sofferenze quotidiane, con i loro atti di debolezza o con i loro gesti di coraggio, quanto piuttosto di coloro che dovevano capirne le ragioni generali, leggerne il filo, spiegarne lo svolgimento”. “Le atrocità non credute”, che era anche il titolo originale dell’articolo, che ruota attorno al rifiuto di accettare la dimensione dell’orrore: un tema tuttora attuale, se pensiamo a certe fasi della guerra in corso in Ucraina. Lo proponiamo qui nella traduzione curata da Nicoletta Tiliacos per “Lo Yogi e il Commissario”.
C’è un sogno che faccio quasi a intervalli regolari: è buio, e io sto per essere assassinato in una sorta di selva o di boscaglia; a non più di dieci yarde di distanza c’è una strada molto frequentata. Grido per chiamare aiuto, ma nessuno mi sente, la gente passa oltre, continuando a ridere e a chiacchierare.
So che molti fanno, con variazioni individuali, questo stesso genere di sogni. Ne ho discusso con alcuni psicoanalisti, e credo che si tratti di un archetipo, in senso junghiano: un’espressione della solitudine estrema dell’individuo di fronte alla morte e alla violenza cosmica, e dell’incapacità di comunicare l’orrore senza paragoni di questa esperienza. Credo, inoltre, che questa sia la radice dell’inefficacia della nostra propaganda contro le atrocità.
Perché, dopo tutto, siete proprio voi le persone che passano ridendo sulla strada; e alcuni di noi, vittime scampate o testimoni oculari di quello che accade nella boscaglia, perseguitati dai ricordi, continuano a gridare alla radio, sui giornali e nelle riunioni pubbliche, nei teatri e nei cinema. Di tanto in tanto riusciamo ad attirare per un minuto la vostra attenzione. Me ne accorgo ogni volta da una certa espressione di muto stupore sul vostro viso, dal vostro sguardo che diventa fisso, e mi dico: “Ora li hai presi. Ecco, tienili, tienili, devono restare svegli”. Ma dura soltanto un minuto. Vi scrollate come cuccioli col pelo bagnato, poi lo schermo trasparente cala di nuovo e continuate per la vostra strada, protetti dalla barriera del sogno che soffoca tutti i rumori.
Noi, che gridiamo, lo facciamo ormai da dieci anni. Abbiamo cominciato la notte in cui l’epilettico Van der Lubbe appiccò il fuoco al Reichstag; dicemmo che se quelle fiamme non si fossero immediatamente spente, si sarebbero propagate a tutto il mondo. Ci avete preso per pazzi. Ora la nostra pazzia consiste nel cercare di raccontarvi di come gli ebrei di tutta Europa siano uccisi in massa nelle camere a gas, con scosse elettriche, seppelliti vivi. I morti sono già tre milioni. E’ la più gigantesca esecuzione di massa che la storia ricordi, e va avanti ogni giorno, ogni ora, regolare come il battito del vostro orologio. Mentre scrivo ho davanti a me, sul tavolo, alcune fotografie che spiegano la mia commozione e la mia amarezza. C’è chi è morto per averle fatte uscire clandestinamente dalla Polonia: qualcuno che ha pensato ne valesse la pena. I fatti sono stati resi noti in pamphlet, libri bianchi, giornali, riviste. E poi, l’altro giorno, incontro uno dei più noti giornalisti americani. Mi racconta che, secondo un recente sondaggio d’opinione, nove americani su dieci, quando si chiede loro se credono alle atrocità naziste, rispondono che si tratta solo di bugie della propaganda, di cui non credono una sola parola. Tengo già da tre anni conferenze ai soldati, qui in Inghilterra, e il loro atteggiamento è identico. Non credono ai campi di concentramento, non credono ai bambini morti di fame in Grecia, agli ostaggi fucilati in Francia, alle fosse comuni in Polonia; non hanno mai sentito parlare di Lidice, di Treblinka o di Belsen. Potete convincerli per un’ora, ma poi si scuotono, la loro autodifesa mentale si rimette a funzionare e, tempo una settimana, si riattiva il riflesso d’incredulità che lo shock aveva temporaneamente indebolito.
Tutto ciò sta diventando un’idea fissa, per me e per i miei simili. E’ chiaro che soffriamo di un’ossessione morbosa, mentre gli altri sono sani e normali. Ma il sintomo caratteristico dei pazzi è che essi perdono il contatto con la realtà e vivono in un mondo immaginario. Forse, stavolta, è tutto il contrario: siamo noi, quelli che gridano, a reagire in modo sano alla realtà che ci circonda, mentre i nevrotici siete voi, che brancolate in un mondo immaginario perché vi manca il coraggio di guardare in faccia la realtà. Se così non fosse, questa guerra si sarebbe evitata e sarebbero ancora vivi coloro che sono stati assassinati davanti voi, sognatori a occhi aperti.
Ho detto forse, perché è evidente che ciò che ho detto prima può essere soltanto la metà della verità. In ogni epoca c’è chi ha gridato – Profeti, Predicatori, Maestri e Illuminati, per maledire l’ottusità dei contemporanei, e la situazione non è mai cambiata. C’è sempre chi grida nella boscaglia e chi continua ad andare per la propria strada. Ha orecchie ma non sente, ha occhi ma non vede. Le radici del problema sono più profonde della semplice ottusità.
E’ forse colpa di chi grida? A volte sì, senza dubbio, ma non credo che il cuore della questione sia questo. Amos, Osea, Geremia erano dei buoni propagandisti, eppure non riuscirono a scuotere il loro popolo e a metterlo in guardia. La voce di Cassandra attraversava i muri, e tuttavia la guerra di Troia c’è stata. E per quanto ci riguarda, fatte le debite proporzioni, credo che, complessivamente, il ministero dell’Informazione e la Bbc siano abbastanza all’altezza del loro compito. Per quasi tre anni sono riusciti a far camminare il paese, senza offrirgli nient’altro che sconfitte. Ma, nello stesso tempo, sono stati del tutto incapaci di dare alla gente la piena consapevolezza di ciò che stava accadendo, della grandezza e dell’orrore dell’epoca in cui siamo nati. Si continuava a vivere nello stile dell’ordinaria amministrazione, con la sola differenza che questa ordinaria routine contemplava la possibilità di uccidere e di essere uccisi. La mancanza d’immaginazione è divenuta una sorta di mito della razza anglosassone; mito generalmente contrapposto all’isterismo latino e altamente apprezzato nelle emergenze. Ma il mito non dice ciò che accade tra i periodi d’emergenza, e che quella stessa mancanza d’immaginazione rende incapaci di prevenire il ritorno delle emergenze.
Ora, questa mancanza di consapevolezza non è un privilegio degli anglosassoni, anche se probabilmente essi sono l’unica razza a considerare come un vantaggio ciò che altri considerano un difetto. Né si tratta di temperamento: gli stoici hanno vedute più larghe dei fanatici. E’ un fatto psicologico, relativo alla nostra struttura mentale, che, sono convinto, non riceve la giusta attenzione nella psicologia sociale e nella teoria politica.
Noi diciamo: “Credo a questo”, oppure “Non credo a questo”, “Lo so”, o “Non lo so”, e consideriamo queste alternative come perfettamente opposte: o bianco o nero. In realtà “sapere” e “credere” hanno diversi gradi di intensità. Io so che un uomo chiamato Spartaco guidò la rivolta degli schiavi romani; ma la mia fede nella sua lontana esistenza è molto più debole di quanto non lo sia nei confronti di quella, mettiamo, di Lenin. Io credo alle nebulose, posso vederle con un telescopio e calcolarne la distanza in cifre, ma esse hanno per me meno realtà del calamaio sul mio tavolo. La distanza, nel tempo e nello spazio, diminuisce l’intensità della coscienza. Così pure la grandezza. Diciassette è una cifra che conosco come un amico intimo; cinquanta miliardi non è che una parola. Un cane investito da un’automobile turba il nostro equilibrio emotivo e la nostra digestione; tre milioni di ebrei trucidati in Polonia ci procurano un’inquietudine moderata. Le statistiche non sanguinano; è il dettaglio che conta. La nostra coscienza è incapace di abbracciare la totalità degli avvenimenti: possiamo soltanto mettere a fuoco piccoli frammenti di realtà.
Fin qui è una questione di gradazione: gradazione nell’intensità della conoscenza e della fiducia. Ma quando ci spingiamo al di là del dominio del finito e ci troviamo di fronte a parole come “eternità”, nel tempo, e “infinito”, nello spazio; quando, insomma, ci accostiamo alla sfera dell’Assoluto, la nostra reazione non è più una questione di gradi e diventa qualitativamente differente. Di fronte all’Assoluto la nostra intelligenza cede e il nostro “sapere” e il nostro “credere” non diventano altro che parole. La morte, per esempio, appartiene alla categoria dell’Assoluto, e la nostra fede in essa è semplicemente una fede a parole. Io “so” che, secondo le statistiche, la vita media dell’uomo è di circa sessantacinque anni, e posso ragionevolmente aspettarmi di non vivere più di ventisette anni ancora; ma se fossi certo di dover morire il 30 novembre 1970, alle cinque del mattino, mi sentirei intossicato da quest’idea, conterei e riconterei i giorni e le ore che mi restano, mi rimprovererei ogni minuto sprecato: in altri termini, diventerei nevrotico. Questo non ha nulla a che vedere con la speranza di vivere oltre la media: se pure la data della morte fosse rimandata di dieci anni, il processo nevrotico resterebbe lo stesso.
Tutti viviamo così, in uno sdoppiamento della coscienza. Esiste un livello tragico e un livello ordinario, che contengono due diverse specie, incompatibili, di conoscenza derivata dall’esperienza. La loro atmosfera e il loro linguaggio differiscono come il latino della Chiesa dal gergo degli affari.
I limiti della consapevolezza spiegano i limiti della propaganda. La gente va al cinema e vede film che mostrano le torture naziste, le fucilazioni di massa, la resistenza clandestina e il sacrificio di tanti. La gente sospira, scuote la testa, qualcuno addirittura grida di orrore. Ma non riconnette tutto ciò alla realtà del proprio piano normale di esistenza. E’ Romanzo, è Arte, è Qualcosa che ci trascende, è il Latino della Chiesa. Non corrisponde alla realtà. Viviamo in una società sul modello “dottor Jekyll e Mr. Hyde”, ingrandito a dismisura.
Ma non è stato sempre così. Ci furono periodi e movimenti storici – Atene, il primo Rinascimento, gli esordi della Rivoluzione russa – in cui almeno alcuni strati della società avevano raggiunto un livello relativamente alto di coscienza; tempi in cui sembrava che gli uomini si stropicciassero gli occhi e si risvegliassero; la loro coscienza universale appariva in espansione ed essi erano “contemporanei”, nel senso più pieno e completo. Tempi in cui il piano ordinario e il piano cosmico apparivano sul punto di fondersi.
E ci furono periodi di disintegrazione e di dissociazione. Ma mai, prima d’ora, neppure durante la spettacolare decadenza di Roma o di Bisanzio, il pensiero è stato dissociato in modo così palpabile, come in una sorta di malattia di massa; mai la psicologia umana ha raggiunto un tale livello di irrealtà. La nostra coscienza sembra restringersi in modo direttamente proporzionale all’espandersi della comunicazione. Il mondo non è mai stato tanto aperto davanti a noi, ma ci viviamo come in prigione, ciascuno nella propria gabbia portatile. Intanto l’orologio continua a battere. Che cosa può fare chi grida, se non continuare a gridare fino a diventare paonazzo?
So di un giornalista londinese molto conosciuto, che girava in lungo e in largo il paese per tenere conferenze, in media una decina a settimana. Prima di ogni conferenza, aveva l’abitudine di isolarsi in una stanza, chiudeva gli occhi e immaginava per venti minuti, in ogni dettaglio, di essere una delle persone trucidate in Polonia. Un giorno cercava di immaginarsi asfissiato dal gas in un treno della morte. Un altro giorno immaginava di doversi scavare la fossa con altri duecento uomini o, ancora, di trovarsi davanti a una mitragliatrice dal tiro ovviamente piuttosto capriccioso e impreciso. E poi usciva, saliva sul palco e parlava. Ha resistito un anno intero, dopo di che ha avuto un collasso nervoso. Il suo grande ascendente sull’uditorio può aver prodotto qualcosa di buono e forse sarà riuscito ad avvicinare di un pollice i due piani separati da miglia.
Credo che il suo sia un esempio da imitare. Due minuti al giorno di questo genere d’esercizio, a occhi chiusi, dopo aver letto il giornale del mattino, potrebbero oggi essere per noi assai più utili della ginnastica e degli esercizi di respirazione yoga. Potrebbero addirittura sostituire la frequentazione delle funzioni religiose. Perché, fintanto che esisteranno passanti sulla strada e vittime nella boscaglia, divisi dalla barrierra del sogno, la nostra rimarrà una falsa civiltà.
Isteria migratoria