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Gli equilibrismi della chiesa di Francesco di fronte alla guerra

Claudio Cerasa

Le parole del Papa contro il riarmo dell’occidente e contro “l’abbaiare della Nato” alimentano i sostenitori dell’equidistanza e regalano alibi agli aggressori dell’Ucraina. Una lettera di un gruppo di teologi e il dettato di sant’Agostino per uscire dall’ambiguità

Alimenta il senso di colpa dell’occidente. Offre carburante ai sostenitori dell’equidistanza. Regala alibi agli aggressori dell’Ucraina. Trasforma le azioni di aggressione in operazioni di reazione. Chi è? Qualche giorno fa, su queste colonne, il nostro Matteo Matzuzzi ha dato conto di una lettera molto interessante rivolta a Papa Francesco e scritta da alcuni teologi progressisti, particolarmente delusi per le posizioni assunte dal Pontefice durante il conflitto in Ucraina. I firmatari di quella lettera sono Massimo Faggioli, storico che vive e insegna negli Stati Uniti, i tedeschi Thomas Bremer e Regina Elsner, l’austriaca Kristina Stoeckl. I teologi accusano il Vaticano di aver messo in campo una posizione così evasiva sulla guerra da aver permesso alla Chiesa ortodossa russa di utilizzare quest’ambiguità come un’arma a favore dell’invasione dell’Ucraina. Le dichiarazioni di Francesco per la pace e la fine dello spargimento di sangue, notano i teologi, sono interpretate in Russia come “una posizione abbastanza morbida rispetto ai discorsi antirussi di molti politici europei” e il ruolo della Chiesa cattolica è per lo più interpretato dalla Chiesa ortodossa come se questa fosse in fondo comprensiva delle istanze russe.

 

L’unico modo per porre fine alla manipolazione della posizione del Vaticano da parte dei media statali ed ecclesiastici russi, dicono i professori, è “smettere di produrre azioni e dichiarazioni che possono essere interpretate per alimentare la propaganda russa e fare dichiarazioni molto chiare e inequivocabili: Francesco deve chiarire dove si trova la Chiesa cattolica sull’Ucraina”. Il testo della lettera dei teologi progressisti è prezioso da studiare per chiunque voglia capire qualcosa in più rispetto a un fenomeno preoccupante che riguarda il dibattito pubblico del nostro paese relativo all’evoluzione del conflitto. Spesso, sbagliando, si considerano i talk-show, con i loro ospiti improbabili e improponibili, come i veri responsabili della diffusione di un sentimento di equidistanza nei confronti della guerra in Ucraina. Ma lo si fa sbagliando. Perché alla radice di quel sentimento di equidistanza che giorno dopo giorno matura nel nostro paese le parole di un Orsini pesano immensamente meno rispetto a quelle del Papa. E’ Papa Francesco, negli ultimi mesi, ad aver offerto agli utili idioti del putinismo italiano una pezza d’appoggio importante per poter sostenere che le responsabilità della guerra, in Ucraina, siano non solo della Russia ma anche della Nato (“Forse l’abbaiare della Nato alla porta della Russia ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto. Un’ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì”). Ed è Papa Francesco, negli ultimi mesi, a essersi rifiutato di fare quello che per esempio aveva scelto di fare nel 2014. Quando, durante la campagna di violenza dell’Isis in Iraq, arrivò a dire che promuovere una sorta di pacifismo laissez-faire avrebbe significato essere silenziosi e indifferenti di fronte alle vittime lasciate sul campo dall’Isis. Francesco non arrivò a giustificare l’uso delle bombe ma si spinse a usare un’espressione non utilizzata in questi mesi di guerra: “E’ lecito fermare l’aggressore ingiusto”. La pace, come ricordato da sant’Agostino nella sua lettera numero 189, “deve essere nella volontà e la guerra solo una necessità, affinché Dio ci liberi dalla necessità e ci conservi nella pace. Infatti non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace! Anche facendo la guerra sii dunque ispirato dalla pace in modo che, vincendo, tu possa condurre al bene della pace coloro che tu sconfiggi”. Il concetto di guerra giusta non è un’eresia suggerita da qualche guerrafondaio al soldo di Biden (“Non possiamo più pensare alla guerra – ha scritto Francesco nell’enciclica Fratelli tutti nel 2020 – come a una soluzione, perché i suoi rischi saranno probabilmente sempre maggiori dei suoi presunti benefici. E alla luce di ciò, è oggi molto difficile invocare i criteri razionali elaborati nei secoli precedenti per parlare della possibilità di una “guerra giusta”) ma lo si trova ben codificato nella teologia e nel catechismo della Chiesa cattolica (paragrafo 2309 del documento dottrinale pubblicato nel 1992 sotto Giovanni Paolo II: per essere giusta, una guerra deve essere un atto di “autodifesa”, in cui l’intervento deve avvenire solo dopo il fallimento di altri mezzi per fermare un danno “duraturo, grave e certo”; l’intervento deve avere “serie possibilità di successo” e non portare a “mali o disordini più gravi del male che si propone di eliminare”).  In tre mesi di guerra, invece, il Papa – che come ha ricordato ancora Matzuzzi nel libro “Il mondo dopo Putin” (che trovate in edicola con il Foglio) è il primo Pontefice che non si percepisce come occidentale e che per questo legge il mondo con uno sguardo viziato da un fondo di antiamericanismo e di antimperialismo – ha scelto di utilizzare parole molto dure contro il riarmo dell’occidente. Ha condannato la scelta di aumentare la spesa dei paesi membri della Nato per la Difesa. Ha definito questa scelta utilizzando un’espressione mai utilizzata contro le azioni violente di Putin, “pazzia”. Ed è arrivato a smentire pubblicamente il suo stesso segretario di stato, Pietro Parolin, quando quest’ultimo, a fine novembre, aveva detto che “l’uso delle armi non è mai desiderabile in quanto comporta sempre un rischio molto alto di togliere la vita alle persone o di causare danni materiali”, ma “il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e la propria patria comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi” (qualche giorno dopo Papa Francesco dirà che “le armi non portano mai la pace”). Norbert Röttgen, pezzo da novanta della Cdu, già ministro di Angela Merkel, pochi giorni fa, sostenendo che un Papa quando entra nel campo della politica non è infallibile, ha consigliato al Papa – Papa divenuto nelle ultime settimane in Italia idolo di Matteo Salvini, che cerca da mesi un modo per dimostrare che il vero responsabile dell’escalation in Ucraina oggi più che Putin si chiama Biden – di formarsi un’opinione più rotonda sulla guerra in Ucraina facendo quello che il Pontefice non sembra avere intenzione di fare: viaggiare a Riga, a Vilnius o a Tallinn per capire cosa significa avere la minaccia russa alle porte di casa. Un conquistatore, sosteneva Carl von Clausewitz, è sempre un amante della pace, perché in fondo, in cuor suo, vorrebbe far ingresso nei paesi da conquistare senza troppo spargimento di sangue e sarebbe molto contento se i paesi invasi scegliessero subito di arrendersi. Tra cercare una via per raggiungere la pace, armando chi si difende, e cercare una via della pace, rimproverando chi si difende di armarsi, c’è tutto un mondo di ambiguità all’interno del quale oggi si trova la Chiesa di Francesco. Una Chiesa che di fronte a un paese assediato, in cui le città vengono circondate, in cui i civili vengono bombardati, in cui i rifornimenti vengono tagliati, in cui ai cittadini viene impedito di fuggire e in cui i bambini e le famiglie vengono deportati dall’esercito, non è ancora riuscita a mettere a fuoco con forza cosa significhi, in un contesto come questo, alimentare il senso di colpa dell’occidente, offrire carburante ai sostenitori dell’equidistanza, regalare alibi agli aggressori dell’Ucraina e trasformare le azioni di aggressione in operazioni legate a una reazione. E quando i teologi progressisti che hanno pubblicato in Italia la propria lettera sul Regno dicono che Francesco deve chiarire dove si trova la Chiesa cattolica sull’Ucraina non si può non auspicare, con fede, che l’occidente possa ritrovarsi presto con una Chiesa disposta a uscire dal suo equilibrismo di fronte a una guerra giusta: quella contro Putin.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.