Il corpo della giornalista di al Jazeera portato in processione a Jenin (foto LaPresse)

Una cronista di al Jazeera morta a Jenin è l'ennesimo guaio per Bennett

Luca Gambardella

Altro campanello d'allarme per il governo: Shireen Abu Akleh, uccisa a Jenin, è già diventata una martire per i combattenti palestinesi. Prima della sua morte altri giornalisti dell'emittente giustificavano gli attacchi terroristici sui social

L’omicidio di Shireen Abu Akleh, giornalista di doppia nazionalità palestinese e americana dell’emittente panaraba al Jazeera, era probabilmente l’ultima notizia che stamattina il premier israeliano Naftali Bennett avrebbe voluto ricevere. Più tardi nella giornata lo attendeva alla Knesset il voto su una mozione presentata dall’opposizione guidata  dall’ex premier Benjamin Netanyahu per andare a elezioni anticipate  – un rischio poi rientrato, perché il Likud si è reso conto di non avere i voti necessari e ha ritirato la richiesta. Ma da mesi l’affidabilità di Bennett e la tenuta del suo governo sono messi alla prova quasi quotidianamente e l’omicidio della giornalista di al Jazeera rischia di dimostrare ancora di più la fragilità del premier. 

 

Abu Akleh, 51 anni di Gerusalemme, era una cronista impegnata sul campo da decenni, tanto da diventare una voce di riferimento per il mondo arabo sulle vicende arabo-israeliane. E’ stata uccisa mentre seguiva un’incursione delle forze di sicurezza israeliane al campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. L’operazione era una delle tante lanciate nella West Bank dopo l’ondata di attacchi in Israele, una nuova Intifada che finora ha ucciso 19 persone.  La giornalista è stata colpita alla testa durante una raffica di colpi d’arma da fuoco, nonostante indossasse il giubbotto antiproiettile e la scritta “Press” fosse ben visibile. Insieme a lei è stato ferito il produttore dell’emittente qatariota, Ali Samodi: “I soldati israeliani ci hanno sparato senza provocazione – ha detto in un video  – Un proiettile ha colpito me e un altro ha colpito Shireen. L’hanno uccisa a sangue freddo. Sono specializzati nell’ucciderci”. Bennett si è detto “addolorato” per l’accaduto, ma ha aggiunto che “probabilmente” i colpi sono partiti dai palestinesi.  Il capo di stato maggiore, Aviv Kohavi, è stato più cauto e ha spiegato che “non è ancora possibile stabilire di chi fosse il proiettile che ha ucciso la giornalista, ma siamo molto dispiaciuti”. Dopo che l’ambasciatore americano in Israele, Tom Nides, ha chiesto un’indagine approfondita, il ministro degli Esteri, Yair Lapid, ha annunciato l’avvio di un’inchiesta congiunta israelo-palestinese. Invece, per il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, non ci sono dubbi: “La responsabilità di questo crimine odioso ricade completamente sugli israeliani”. 

 

Abu Akleh è già diventata una martire nella propaganda dei gruppi terroristici islamici. Il corpo della giornalista è stato subito avvolto nella bandiera palestinese e portato in spalla in corteo da uomini armati e incappucciati, appartenenti alle milizie più radicali. Insieme a loro c’erano centinaia di persone che lanciavano cori contro Israele.  Hamas ha subito pubblicato sui suoi canali social un’immagine commemorativa della giornalista e ha accusato gli israeliani della sua morte. Stessa cosa ha fatto il Movimento per il jihad islamico in Palestina, che ha diffuso un video che mostrerebbe un momento della sparatoria che – secondo loro – sarebbe la prova della colpevolezza degli israeliani. Di contro, anche le forze di sicurezza ne hanno pubblicato uno, girato con “body cam” da un militare che partecipava all’operazione al campo di Jenin. Una corsa a dimostrare mediaticamente la rispettiva innocenza.  
    

Nei giorni precedenti all’omicidio di Abu Akleh, molti altri giornalisti di al Jazeera avevano postato su Twitter commenti molto duri nei confronti di Israele e delle operazioni militari lanciate come risposta agli attentati palestinesi. In alcuni casi, i cronisti avevano anche legittimato gli attacchi terroristici degli ultimi mesi. I giornalisti Tamer al Misshal e Ahmar Mansour avevano celebrato i due assalitori palestinesi che a Elad, a est di Tel Aviv, avevano ucciso tre israeliani lo scorso 5 maggio. “Nell’èra della sottomissione araba (a Israele, ndr), siamo orgogliosi della Palestina e della sua resistenza, che si arrende solo ad Allah”, aveva scritto al Misshal due giorni dopo l’attacco. Per Mansour, le forze di sicurezza israeliane erano riuscite a catturare i due palestinesi responsabili dell’attacco di Elad solo grazie “al tradimento di alcuni complici, rivelando la fragilità del suo apparato di sicurezza”. Un altro giornalista di al Jazeera, Ahmed Sobhy, aveva scritto che è “il diritto internazionale a consentire ai fida’i (i fedayeen palestinesi, ndr)  di compiere operazioni contro chi occupa la terra di altri”. Il 6 maggio, la corrispondente da Washington di al Jazeera, Wajd Waqfi, aveva scritto che “mai nella storia un occupante aveva goduto di tanta stabilità e sicurezza”. Infine l’ex direttore dell’emittente, Yasser Abu Hilalah, aveva scritto sempre su Twitter che “i sionisti reputano che il popolo palestinese sia una pecora da macellare”. 

 

Schivata la minaccia dello scioglimento del governo, Bennett è atteso a dare un segnale sul fronte della sicurezza. Da una parte, Hamas continua a mettere il cappello sugli attacchi terroristici – ma secondo gli esperti si tratta piuttosto di lupi solitari –, dall’altra la rabbia e la paura per una nuova Intifada sono sempre più forti fra gli israeliani, che alimentano dubbi sulla reale capacità del governo di garantire sicurezza. Forse, il voto per le elezioni anticipate è solo rimandato. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.