La guerra in Europa

Il pendolo cinese

L'espressione cosmetica è: “L'evoluzione della questione ucraina e la situazione attuale è qualcosa che la Cina non vuole vedere”. Dall'Ue dicono che al massimo Pechino “può esercitare la sua influenza” per una tregua. La contropartita? Che il summit con l'Ue il prossimo 1° aprile si faccia

Giulia Pompili

Pechino gode della propaganda sulla sua mediazione in Ucraina e nel frattempo scende a patti con l’Europa. L’amicizia opportunistica tra Xi Jinping e il macellaio Vladimir Putin con un obiettivo: conquistare il mondo 

L’amicizia tra Russia e Cina è granitica, ha detto il ministro degli Esteri cinese Wang Yi il 7 marzo scorso, mentre le bombe russe cadevano sulla capitale Kyiv e su altre città ucraine e il presidente russo Vladimir Putin aveva appena promulgato una legge che prevede fino a 15 anni di carcere per chiunque riporti notizie che potrebbero screditare l’esercito russo. L’amicizia tra Russia e Cina è granitica e Mosca è “il nostro più importante partner strategico”. La posizione di Pechino, in questi quasi venti giorni di guerra d’invasione russa in Ucraina, è cambiata soltanto nelle sfumature e non nei fondamentali. L’asse Mosca-Pechino è entrato “in una nuova èra”, secondo un’espressione cara alla leadership cinese. Ecco l’espressione cosmetica: “L’evoluzione della questione ucraina e la situazione attuale è qualcosa che la Cina non vuole vedere”, ha detto diverse volte il ministro degli Esteri cinese, lo ha fatto anche al telefono con il segretario di stato americano, Antony Blinken.  Il ministero degli Esteri di Pechino ha annunciato che la Croce rossa cinese – che risponde direttamente al governo – manderà aiuti in Ucraina e poi, subito dopo, ha chiesto ufficialmente agli Stati Uniti di “dire la verità” sui “laboratori biologici finanziati dall’America in Ucraina, inclusi i tipi di virus conservati lì e le ricerche che si stanno effettuando”. Una specie di episodio crossover delle ossessioni della propaganda cinese: usare la guerra in Ucraina per cercare di liberarsi della macchia di un’indagine internazionale sull’origine del coronavirus, e quindi tornare sulle accuse contro l’America di avere nascosto virus pericolosissimi ovunque per fare esperimenti da film hollywoodiani. 


In Europa, ma soprattutto in Italia, il dibattito pubblico sulla guerra in Ucraina negli ultimi giorni si è condito di un nuovo elemento: la mediazione cinese. Lo sostiene, da invitato nei talk-show, l’ex sottosegretario leghista Michele Geraci (“la #Cina è una delle ultime speranze per mediare tra #Russia e #Ucraina”) e lo sostengono i gruppi del business che fanno affari con la Cina.

 

Zhang Jun, rappresentante permanente della Cina alle Nazioni Unite, parla alla riunione d'emergenza del Consiglio di sicurezza il 28 febbraio scorso (Ap)

 

In una nota stampa, il presidente della Fondazione Italia Cina, Mario Boselli, fa sapere che “è da almeno una decina di giorni che ci chiediamo chi è che avrebbe dovuto giocare il ruolo di mediatore in questo terribile conflitto”. Infatti, chi? “Un’Europa unita e solidale avrebbe potuto farlo anche da sola, ma finora abbiamo assistito ad azioni animate da singoli paesi”. Men che meno l’America, dice Boselli: “Gli Stati Uniti si sono esclusi da soli, visto che il presidente Biden si è messo da subito in una posizione di contrapposizione con la Russia di Vladimir Putin”. Forse voleva dire il macellaio? “Serviva dunque un terzo attore autorevole”, dice Boselli. “Per esclusione, questo protagonista altri non poteva essere che la Cina”. Secondo una delle fondazioni che proteggono gli interessi del mondo del business italiano in Cina, le vittime di questa guerra non sono solo quelle morte sotto ai bombardamenti “ma anche gli operatori economici, le imprese italiane”, e quindi viva il presidente Xi Jinping che media. Abbiamo già assistito all’estrema semplificazione del dibattito mediatico italiano quando si affrontano questioni estremamente complicate, per esempio durante la pandemia. In questo caso, però, l’unicità italiana, rispetto alle discussioni in corso in Europa, è quella di lasciare che il tema si svolga da solo, attraverso la propaganda di Pechino oppure per bocca di chi ha tutto l’interesse di fermare velocemente l’instabilità, cioè il mondo del business, consegnando la risoluzione del conflitto a chi gli interessa di più. Il partito dell’antiamericanismo gioisce: ecco, la Cina, la più responsabile di tutti, che ferma la guerra bendata con una mano sola. Come quando chi faceva affari con la Russia magnificava la leadership di Putin. E  Pechino naturalmente ha molto da guadagnarci da questo dibattito, perché le viene assegnato un ruolo da adulto nella stanza  che non ha mai chiesto, senza dover fare niente, perché anche se non fa niente è colpa dell’America, secondo i suoi supporter.   

 

Turisti cinesi sull'isola Quanfu, nell'arcipelago delle isole Paracelso contese tra Cina e Vietnam (Ap)

 

La prima cosa che hanno cercato di chiarire in tutti i modi, perfino l’Alto rappresentante Ue per la Politica Estera Josep Borrell, è che la Cina non può essere mediatore. Per definizione, il mediatore è una parte terza, indipendente, e da Wang Yi i messaggi sono stati esattamente opposti sulla partnership con la Russia. Borrell ha detto che “la Cina può esercitare la sua influenza e svolgere un ruolo per una soluzione diplomatica”. E’ esattamente la stessa posizione della Cina, che più volte nelle dichiarazioni pubbliche dei suoi funzionari ha fatto sapere di voler “contribuire” al dialogo, ma che questo dialogo deve essere soprattutto tra Ucraina e Russia. Anche le parole del premier Li Keqiang, ieri, chiudendo le Due sessioni, l’appuntamento politico più importante nella liturgia cinese, sono un magnifico esempio di equilibrismo: “La situazione in Ucraina è grave e la Cina è profondamente preoccupata”,  ed è disposta “a svolgere un ruolo attivo nel ritorno alla pace insieme alla comunità internazionale”, ha detto. La Cina è  preoccupata soprattutto che il conflitto si allarghi, ma è contraria alle sanzioni perché fanno male “all’economia globale”. Dell’“indipendenza” della politica estera cinese ha parlato pure il falco Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri, che in pratica dice: noi andiamo avanti per la nostra strada, l’unica cosa che non ci sta bene sono le sanzioni. Intanto le bombe continuano a cadere.    


Le contraddizioni cinesi sono evidenti e fortissime: anche il leader Xi Jinping ha ripetuto che la Cina sostiene “il ruolo centrale delle Nazioni Unite negli affari internazionali”, e però si è astenuta alla risoluzione del Consiglio di sicurezza contro la Russia. Pechino cerca di dirci che “l’operazione militare speciale” è una questione tutta russo-ucraina. Teme le conseguenze dal punto di vista commerciale, certo, una guerra in Europa è il contrario della stabilità che serve alla Cina per continuare il suo business. Teme l’effetto delle sanzioni contro la Russia, che potrebbero influire sulla crescita già azzoppata dalla pandemia, e perde parecchio da una Ucraina rasa al suolo, considerato che fino a un mese fa aveva ottimi rapporti commerciali con Kyiv, che faceva parte della Via della seta. Tutto questo può avere un effetto sulla “prosperità comune”, la politica economica sul lungo termine che la leadership di Xi ha promesso ai cinesi con una redistribuzione della ricchezza – un pezzo fondamentale del patto sociale tra il Partito e i governati. Ma queste sono le ipotesi di analisti e osservatori. La fotografia attuale resta quella di una Cina che vorrebbe essere vista come una potenza responsabile, che si erge ad alfiere del multilateralismo ma che nel frattempo resta seduta sul muretto a guardare la città bruciare, in attesa che si aprano spiragli da cui guadagnare qualcosa.  Anche il messaggio della propaganda interna, quella rivolta ai cittadini cinesi, è di tutela a ogni costo dell’amicizia con Putin: non a caso sono censurate anche in Cina tutte le manifestazioni e le esternazioni sui media di solidarietà all’Ucraina. E  si rileva una forte convergenza tra la disinformazione russa e quella cinese che fa da megafono.  

 

 A Bruxelles si parla molto di questo, dicono diverse fonti al Foglio: se chiediamo alla Cina almeno di fare pressioni su Putin per fermare la guerra, cosa ci chiederà in cambio? Finora i funzionari di Pechino si sono mostrati collaborativi con l’Ue,   e stanno facendo capire di voler preservare a tutti i costi il summit tra Cina e Ue previsto per il 1° aprile prossimo. In cambio,  oltre al dialogo con Mosca,  nei prossimi giorni ci saranno alcune  mosse, soprattutto economiche da parte della Cina, per mandare un messaggio  alla Russia e rassicurare l’Ue. Con cui la Cina deve assolutamente continuare a dialogare. Non è un caso se il capo della diplomazia cinese abbia avuto diverse conversazioni nei  giorni scorsi,  una pure col ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio – “Con il collega Wang Yi abbiamo concordato sforzi congiunti per un percorso di pace”, ha scritto su Twitter Di Maio, e nel comunicato cinese della conversazione si legge che la telefonata “è stata richiesta da Di Maio”, e poi Wang Yi ha ricordato la  videoconferenza del leader  Xi Jinping, due giorni fa, con il presidente francese Emmanuel Macron e il nuovo cancelliere tedesco, Olaf Scholz, in cui la Cina ha riproposto   i quattro punti fondamentali sulla crisi in Ucraina: la sovranità va rispettata, le “preoccupazioni sulla sicurezza” vanno rispettate, bisogna seguire l’Onu e  “sostenere  gli sforzi per la pace”. Xi Jinping ha voluto parlare con Francia e Germania per un motivo: sono  gli stessi leader dei paesi che il 31 dicembre del 2020 avevano promesso alla Cina un accordo molto grosso sugli investimenti (il Cai, l’Eu-China Comprehensive Agreement), che poi era fallito dopo le sanzioni del Parlamento europeo contro alcuni funzionari cinesi per le violazioni dei diritti umani nel Xinjiang, e le controsanzioni cinesi contro alcuni rappresentanti e istituzioni europee. Il trilaterale allora era composto da Xi Jinping, la cancelliera Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron. Alla videochiamata di tre giorni fa l’unico sostituito era Scholz. 


E’ anche per questo opportunismo che Bruxelles non si fida della Cina, ma soprattutto la maggioranza dei funzionari europei non vuole consegnare alla Cina una responsabilità di queste dimensioni. Con qualche ragione, che va oltre l’inesperienza cinese su negoziati internazionali. La coercizione economica imposta dalla Cina alla Lituania, dopo che Vilnius ha aperto un ufficio di rappresentanza di Taiwan, ha indebolito il commercio ma ha reso ancora più evidente il pericolo di assoggettarsi troppo ai desiderata di Xi Jinping. Non solo. Nelle ultime settimane è aumentato un sospetto, anche tra i corridoi dei palazzi istituzionali dell’Ue. Durante questa crisi ucraina l’America ha usato per la prima volta un sistema d’intelligence trasparente. Ha detto a tutti quel che stava succedendo e per tre mesi, come ha riportato il New York Times, ha incontrato segretamente i funzionari cinesi per mettergli a disposizione le loro informazioni sul progetto russo di invasione. La leadership cinese, impegnatissima a trasformare i Giochi olimpici di Pechino in un messaggio di potenza e probabilmente ancora scottata dall’annuncio del boicottaggio diplomatico da parte dei paesi occidentali, era stata coinvolta in un dialogo con Washington per fermare Putin. Secondo diversi analisti, ci sono alcuni segnali che ci fanno supporre che la Cina credesse che l’America stesse esagerando, e che Putin avrebbe condotto un’operazione militare molto più contenuta. Secondo il direttore della Cia, William Burns, è possibile che  Xi Jinping non fosse stato informato adeguatamente: il 24 febbraio Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri, dice chiaramente ai giornalisti che “le Forze armate russe non effettueranno attacchi missilistici di artiglieria su nessuna città ucraina”. E poi c’è la questione dei seimila cittadini cinesi in Ucraina evacuati molto in ritardo, quando le bombe arrivavano eccome sulle città: secondo diverse fonti l’unica telefonata che finora c’è stata tra Wang Yi e il ministro degli Esteri ucraino, il 2 marzo, non era l’inizio di una mediazione cinese, quanto piuttosto una richiesta di aiuto per evacuare i cittadini cinesi in cambio di esercitare la propria influenza su Putin per attivare il cessate il fuoco e i corridoi umanitari. 


Se così fosse, il peso d’influenza che la Cina sta mettendo in campo per fermare i bombardamenti è troppo leggero. L’altra ipotesi, altrettanto plausibile, è che Putin non abbia nessuna intenzione di prendere ordini da Xi Jinping e di trasformarsi definitivamente nel “junior partner” della Cina.  


Ma quando si parla di Cina mediatrice d’eccellenza della guerra in Ucraina c’è anche un’altra questione da affrontare. Smentite tutte le dichiarazioni della propaganda su “la Cina non ha mai invaso nessuno e non fa una guerra da mille anni” – smentite dai fatti, provate a chiederlo al Vietnam, al Tibet, all’India, ai sudcoreani – serve infilarsi dentro al Sogno cinese di Xi Jinping per capire quanto le dichiarazioni contro l’America, la Nato e “la mentalità da Guerra fredda” siano in realtà parte integrante di un più ampio progetto di rivoluzione dell’ordine liberale internazionale. Un obiettivo che condividono Cina e Russia. Se Mosca, adesso, lo sta facendo con le bombe e con il sangue, da tempo l’agenda cinese è meno brutale, ma non molto diversa. 

 

Una mappa del Mar cinese meridionale con la linea dei Nove punti cinese (Wikipedia)


Per questo bisogna volare a oltre ottomila chilometri di distanza dall’Ucraina, al largo di due scogli nel Mar cinese meridionale, un’area di 3 milioni e cinquecento chilometri quadrati racchiusi tra Taiwan, le Filippine, il Brunei, la Malaysia, il Vietnam e l’isola cinese di Hainan.  I due scogli fanno parte di una secca che si trova a poco più di duecento chilometri dalla costa ovest delle Filippine. E infatti la secca di Scarborough è dentro al territorio filippino.
 

I pescatori che vanno lì a pescare sono per lo più filippini, ogni tanto arriva qualche peschereccio vietnamita, taiwanese, cinese, pur sapendo di violare la Zona economica esclusiva di Manila. Di tanto in tanto interviene la Marina filippina per espellere i pescatori stranieri. Poi, l’8 aprile del 2012, succede qualcosa che cambia tutto. Un aereo da ricognizione filippino scopre che otto pescherecci cinesi si sono ancorati a una laguna sulla secca di Scarborough: non cercano di nascondersi, sono tanti, insomma è un atto deliberato.  Due giorni dopo Manila manda la nave di pattugliamento “Gregorio del Pilar”. Le autorità filippine ispezionano i pescherecci cinesi e ci trovano dentro coralli, vongole giganti, e altra flora e fauna proibite pure se sei un pescatore filippino. A quel punto, di prassi, scatterebbe l’arresto, ma per quello che i cinesi definiscono “un puro caso” due imbarcazioni della Guardia costiera di Pechino erano proprio lì vicino e vanno in soccorso dei pescatori cinesi. Inizia quello che in gergo si definisce standoff: da una parte le navi cinesi, dall’altra quella filippina, e nessuno se ne va per primo, per paura che l’altro prenda il suo posto. Lo standoff va avanti per mesi. L’America si offre di fare da mediatore imparziale, e la soluzione è questa: le navi cinesi e quelle filippine lasciano la secca contemporaneamente, si evita l’incidente che potrebbe portare a uno scontro armato, e poi si ragiona su un accordo. Ok, siamo d’accordo, si parte. I pattugliatori filippini si allontanano dalla secca. Quelli cinesi pure, ma poi tornano indietro, prendono possesso dell’intera area e la militarizzano. E dicono: accordo? Non c’è stato mai nessun accordo. Manila, seguendo le regole del diritto internazionale, prova a trascinare Pechino davanti a un tribunale della Corte permanente di arbitrato dell’Aia, per dimostrare di chi sia davvero quel pezzetto di oceano. Nel 2016 il tribunale dà ragione alle Filippine, e va oltre, dice: tutte le rivendicazioni della Cina nel Mar cinese meridionale sono illegittime. Pechino risponde: io non riconoscono questo tribunale.
Dal 2012 la secca di Scarborough è sotto il controllo militare della Cina.

 

Una manifestazione davanti al consolato cinese a Manila il 7 maggio del 2021 (Ap)


E ovunque, nel Mar cinese meridionale, ci sono zone militarizzate che la Cina si è conquistata con lo stesso modus operandi. Il controllo di quell’area è cruciale: secondo le Nazioni Unite da lì passa un terzo del commercio via mare globale. L’80 per cento dell’energia importata dalla Cina. Quasi tutte le navi passano attraverso quell’autostrada marittima che è lo stretto di Malacca, che collega l’oceano Indiano al Pacifico, e che divide Singapore e la Malaysia dall’Indonesia. La Cina rivendica praticamente tutto il Mar cinese meridionale, la famigerata “linea dei nove punti” – smontata dalla Corte arbitrale dell’Aia – viene introdotta sulle mappe geografiche dei libri di scuola nel 2012. Oggi se un’azienda straniera in Cina per caso si sbaglia, e usa una cartina geografica riconosciuta a livello internazionale, cioè senza la linea dei nove punti cinese, viene sanzionata. 


E’ il Pacifico il posto da cui partire per capire la posizione della leadership di Pechino sulla guerra in corso. Se la Russia, secondo la Cina, aveva delle “legittime preoccupazioni per la sua sicurezza”, anche Pechino potrebbe un giorno avere delle preoccupazioni su quella che considera la sua sicurezza: da Taiwan fino a tutto il Mar cinese meridionale. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.