Foto LaPresse / Andrew Marienko 

Con la guerra in Ucraina la storia è finita di nuovo

Guido Vitiello

I conflitti e le catastrofi risvegliano ciclicamente il nostro intorpidimento psichico da bambinoni viziati. Ma poi tutto passa e torniamo a sonnecchiare

La guerra in Ucraina non ci sarà, diceva Lavrov a gennaio. Non abbiamo attaccato l’Ucraina, ha detto Lavrov l’altro ieri. La guerra in Ucraina non c’è mai stata, dirà Lavrov tra un paio di mesi, per chiudere il cerchio. Sospetto che Jean Baudrillard, o forse il suo simulacro, si stia rivoltando nella tomba mentre il ministro russo gli plagia un celebre trittico di articoli del 1991 (La guerre du Golfe n’aura pas lieu; La guerre du Golfe a-t-elle vraiment lieu?; La guerre du Golfe n’a pas eu lieu). Proprio quando lo davamo per spacciato, il postmodernismo si è risollevato dalla polvere e ci si è ritorto contro, incattivito e armato fino ai denti.

E’ quasi irriconoscibile, e un ghigno sadico ha preso il posto della sua perenne smorfia blasé. Se n’era avuto un presagio con l’elezione di Donald Trump. Michiko Kakutani del New York Times suggerì allora che idee come quelle di Baudrillard, dopo esser filtrate in forma diluita e più o meno adulterata nella cultura pop (pensiamo anche solo a “Matrix”), erano state riciclate dai propagandisti di Trump per annullare ogni differenza tra vero e falso, realtà e simulazione, pillola rossa e pillola blu. Chissà se la pipa magrittiana di Lavrov – questa non è una guerra – mira appunto a far presa sui riflessi condizionati di un’opinione pubblica occidentale macerata troppo a lungo in uno scetticismo cronico, e incline a diffidare di tutto ciò che vede, legge, ascolta. Anche così si spiegano certi nostri talk-show surrealisti in cui ci si chiede se quella russa sia o meno un’invasione, se quella ucraina sia o meno resistenza, se l’ospedale pediatrico di Mariupol fosse un vero ospedale con dei veri pazienti e dei veri bambini o non fossero piuttosto degli attori, come dicono i russi. O forse dei simulacri baudrillardiani.


Ma qui è utile un piccolo flashback, perché a rigore tutta questa storia comincia vent’anni fa con lo choc delle Torri gemelle. Roger Rosenblatt, pochi giorni dopo gli attentati, annuncia su Time che è finita l’“epoca dell’ironia”. I dirottatori jihadisti hanno fatto venir giù, insieme alle Torri, anche quel tono emotivo così diffuso tra le nostre chattering classes, i ceti chiacchieroni dell’opinionismo e della cultura pop, per cui non c’è nulla di reale e nulla dev’essere preso troppo sul serio. La realtà ha fatto irruzione nei grattacieli di vetro dei nostri giochini linguistici e dei nostri ammiccamenti ironici e meta-ironici. Si susseguono, in quelle settimane, le orazioni funebri per il postmodernismo come pure, per altro verso, le ramanzine a Francis Fukuyama, colpevole di aver celebrato il funerale prematuro alla storia. Fareed Zakaria, su Newsweek, saluta la “fine della fine della storia”. Molti altri si accodano a quell’annuncio di resurrezione, e a ottobre Fukuyama risponde sul Wall Street Journal ai suoi critici, cosa che da allora non potrà smettere di fare. E infatti oggi siamo daccapo, e il povero Fukuyama (o meglio, non Fukuyama: l’eco distorta del titolo di un suo libro che nessuno ha letto) è tornato sotto tiro: la guerra in Ucraina dimostrerebbe, ancora una volta, che la fine della storia è finita


Se ne deduce che, dopo essere ricominciata nel 2001, la storia era finita di nuovo, o era entrata in un coma reversibile. Confesso che il dibattito non riesce a scaldarmi: più che una teoria da discutere, la fine della storia mi sembra uno stato d’animo, un’atmosfera spirituale, una Stimmung. Del resto, nel più importante libro sul tema, scritto alla fine degli anni Ottanta, Lutz Niethammer aveva osservato che questa idea dell’esaurimento di ogni orizzonte storico ebbe i suoi picchi di fortuna in due contesti precisi: nel secondo Dopoguerra, tra gli intellettuali di destra delusi dal nazismo in cui avevano riposto le loro speranze (come Arnold Gehlen); e poi negli anni Settanta, tra gli intellettuali di sinistra che avevano visto frustrate le loro aspettative rivoluzionarie (come Jean-François Lyotard). Insomma, un ripiegamento da innamorati delusi, sottilmente risentiti e interiormente impigriti. Ma per quelli di noi, la maggioranza, che non hanno mai avuto il batticuore per il Reich millenario o per la società senza classi, lo stato d’animo post storico è più che altro il frutto mentale di decenni di pace, di relativa sicurezza e di relativo benessere. Non è un cinismo ostentato da amanti disamorati, semmai un intorpidimento psichico da bambinoni viziati. Vogliamo che la storia continui a sonnecchiare, o che al limite vada a far baldoria in continenti molto più lontani. E soprattutto, che Zelensky la smetta di fare tutto quel chiasso: qui c’è gente che dorme. 


Mi capita spesso di ripensare a Crash di J. G. Ballard – romanzo amatissimo da Baudrillard – e a quel mondo in cui gli incidenti d’auto quasi mortali sono l’unica occasione che resta a dei personaggi emotivamente esauriti per sentirsi vivi. Qualcosa di simile capita anche a noi. Ciclicamente, il crash di una nuova guerra o di una nuova catastrofe ci risveglia dal sonno. Ci affrettiamo a proclamare che il nostro parco giochi postmoderno deve chiudere i battenti, e che la grande storia si è rimessa in moto. Su alcuni questo scossone ha un effetto sinistramente eccitante. Ma è un effetto che dura poco, e con la stessa facilità con cui siamo balzati su dal divano torniamo a scivolare nell’ottundimento di sempre. Ed è in previsione di questo momento che Lavrov-Morpheus ci somministra la sua pillola blu. La guerra in Ucraina non ci sarà, non c’è, non c’è mai stata.
 

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