La Corea del nord riprende i test missilistici e per Biden sarà presto un problema

Giulia Pompili

Pyongyang ha eseguito sette lanci missilistici nel 2022, più di tutti quelli fatti nel corso dello scorso anno. L’ultimo show di forza irrompe nella campagna elettorale sudcoreana. La strategia della Casa Bianca

Ieri mattina l’agenzia di stato della Corea del nord, la Kcna, ha pubblicato le immagini riprese dallo spazio dal suo missile a raggio intermedio lanciato domenica scorsa. Sono fotografie che dicono molto delle capacità missilistiche nordcoreane, ma soprattutto del messaggio politico che c’è dietro al test. Sin dall’inizio del 2022, la Corea del nord ha eseguito sette lanci missilistici, più di tutti quelli fatti nel corso del 2021, e l’ultimo show di forza è stato eseguito con uno Hwasong-12, il più potente missile testato dal regime di Pyongyang dal novembre del 2017, nel periodo di massima tensione con l’America. Il missile è stato lanciato  con un angolo il più possibile verticale – un metodo di routine per evitare che il vettore sorvoli i paesi vicini – ha raggiunto l’apogeo di duemila chilometri ed è caduto a ottocento chilometri di distanza dal luogo di lancio nella provincia di Chagang, che si trova a nord, al confine con la Cina. Il 5 e il 10 gennaio scorsi la Corea del nord aveva già lanciato due missili che aveva definito “ipersonici” (forse armamenti più manovrabili dei balistici precedentemente noti); poi, il 15 gennaio scorso, due missili a corto raggio KN-23 lanciati da un treno; il 25 gennaio un altro test di “missili tattici manovrabili” schierati  per “colpire con precisione un bersaglio su un’isola”; dieci giorni dopo, il 25 gennaio, altri due missili da crociera a lungo raggio; infine il missile balistico a raggio intermedio (Irbm) di domenica scorsa. E’ un’escalation abbastanza chiara, soprattutto perché l’ultimo test ricorda molto quello che aumentò enormemente la crisi tra l’Amministrazione Trump e la leadership di Pyongyang, il Hwasong-15 lanciato il 28 novembre del 2017, poco più di tre mesi dopo la famosa minaccia di “fire and fury” di Trump. All’epoca  quella retorica muscolare in realtà aveva portato la Casa Bianca a concedere alla Corea del nord quello che voleva: il dialogo accompagnato dalla legittimità.  I summit tra il presidente americano e il leader nordcoreano Kim Jong Un, un cambio di passo radicale dalla strategia della “pazienza strategica” di Barack Obama, si conclusero senza una vera road map verso la denuclearizzazione nordcoreana, ma soltanto con una moratoria sui test missilistici a lungo raggio e sugli esperimenti atomici. Già la scorsa settimana, durante una riunione del Comitato centrale del Partito, Kim Jong Un ha detto di non sentirsi più vincolato dall’impegno, accusando l’America di aver ripreso la sua politica belligerante e aggressiva nei confronti di Pyongyang. 


In realtà, il presidente Joe Biden, sin dal suo insediamento, non ha mai considerato la Corea del nord come una priorità della sua politica estera. C’è la Cina prima di ogni cosa, e poi c’è la Russia, c’è (stato)  l’Afghanistan. Dopo i test di metà gennaio, il dipartimento del Tesoro americano ha imposto sanzioni unilaterali contro alcuni funzionari nordcoreani, ma quando l’America ha promosso ulteriori sanzioni al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Cina e Russia hanno affossato la proposta. Il paese di Kim Jong Un, che ha scavallato quest’anno i dieci anni di leadership, è piegato da due anni di pandemia durante la quale sono stati blindati i confini, è stato vietato l’arrivo anche di aiuti umanitari e si è interrotto il mercato nero, principale fonte di sussistenza di diversi settori dell’economia nordcoreana. L’escalation di test di questo mese può servire alla propaganda interna belligerante di Kim, e potrebbe anche essere una strategia per tornare a contare qualcosa nelle priorità della politica estera americana e far tornare gli Stati Uniti al tavolo dei negoziati. Oppure, in terza ipotesi, la Corea del nord del post-Trump sta cercando semplicemente  di costruire la sua “politica di deterrenza” con gli show di forza,  come ha scritto Cheong Wook-Sik, direttore dell’Hankyoreh Peace Institute sul quotidiano di sinistra Hankyoreh. 


Al di là degli obiettivi, se l’escalation dovesse proseguire la Corea del nord potrebbe diventare presto un’ulteriore fonte di problemi per Biden. Di sicuro lo è per la Corea del sud, in piena campagna elettorale (si vota il 9 marzo prossimo). Il Partito democratico guidato da Moon Jae-in riesce a fatica a giustificare ancora la sua “Sunshine policy”, la politica d’apertura verso il nord, e infatti ieri il ministro della Difesa del suo esecutivo, Suh Wook, ha fatto una visita a sorpresa al comando missilistico sudcoreano. A farne le spese è il candidato del Partito democratico Lee Jae-myung. Nel frattempo Yoon Seok-youl, il candidato del Partito del potere del popolo, principale formazione d’opposizione, parla di “attacchi preventivi” e di nuovi scudi antimissile da istallare su territorio sudcoreano. Una retorica che secondo gli analisti potrebbe alzare ancora di più la tensione.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.