Trump dice che non parla più con Bibi: "Fuck him"

Micol Flammini

Donald divide il mondo tra sleali e leali: l’ex premier israeliano ormai è tra i primi. Ecco due lezioni sull'ex capo della Casa Bianca, gli Accordi di Abramo, la democrazia e Israele a partire dagli insulti a Netanyahu 

Roma. Il presidente americano, Donald Trump, è ossessionato dal concetto di lealtà, in base al quale divide il mondo in due categorie: chi ha  definito “rubata” l’elezione di Joe Biden – e queste sono le persone leali – e chi invece ha riconosciuto la vittoria del nuovo capo della Casa Bianca – questi sono gli sleali. Ha parole di approvazione per i primi, per tutti gli altri: fuck you. E’ questo il metro di giudizio che ha utilizzato con l’ex premier israeliano Benjamin Netanyahu, che è passato a guidare l’opposizione dopo dodici anni. E’ un ex, proprio come lui, e i due sono stati legati da una collaborazione intensa: Trump si è più volte vantato di essere il presidente americano che ha fatto di più per Israele. E lo ha fatto anche in un’intervista con il giornalista  Barak Ravid che  ha  pubblicato un libro dal titolo “La pace di Trump: gli Accordi di Abramo e il rimodellamento del medio oriente”.

 

Per ora è disponibile soltanto in ebraico, ma in un podcast di Axios Ravid ha riportato anche l’intervista con Trump. Durante il colloquio l’ex presidente  dice che Bibi Netanyahu, “l’uomo per cui ho fatto di più di qualsiasi altra persona . . . è stato il primo a congratularsi” con Biden. “Avrebbe potuto restare in silenzio. Ha commesso un terribile errore”. E ancora: “Non gli parlo più da allora. . . Fuck him”. Netanyahu, in realtà, non è stato il primo: ha atteso più di dodici ore prima di congratularsi. “Mi piaceva Bibi. Mi piace ancora. Ma mi piace anche la lealtà”. Trump si sarebbe aspettato una reazione come quella del presidente russo Vladimir Putin o del brasiliano Jair Bolsonaro che “ritenevano che le elezioni fossero truccate”. 

 

Da presidente Trump è stato importante per Israele: ha riconosciuto le alture del Golan, e lo ha fatto poco prima di un voto complicato per Netanyahu, ha spostato l’ambasciata a Gerusalemme, ha ritirato gli Stati Uniti dall’accordo con l’Iran, ha presentato un piano per la pace tra israeliani e palestinesi e infine ha ottenuto il successo della firma degli Accordi di Abramo: i trattati di normalizzazione fra alcuni paesi arabi  e Israele. Il libro di Ravid racconta come si è arrivati a questo passo storico, i retroscena dell’amicizia fra Trump e Bibi, ma anche di tutte le volte in cui Washington si è arrabbiata perché il premier israeliano sembrava tirare sempre di più la corda e dopo l’annuncio dell’accordo di pace dichiarò che Israele avrebbe proceduto all’annessione di alcune aree della Cisgiordania: Trump era presente quando Netanyahu fece l’annuncio e storse la faccia. Nessuno se lo aspettava. Suo genero Jared Kushner ebbe diverbi molto accesi con i funzionari israeliani, cacciò anche l’ambasciatore Ron Dermer dal suo ufficio. Era ormai chiaro che il piano di pace sarebbe naufragato, l’Amministrazione Trump doveva trovare un’alternativa valida e così si arrivò agli Accordi di Abramo. 

 

Trump è stato uno spot per Bibi, ma anche Bibi lo è stato per lui, il sostegno reciproco però non è bastato a tenerli al potere, nessuno dei due. Ora che Trump insulta l’ex premier, però, rischia anche di alienarsi il sostegno di tanti cittadini americani di origine ebraica che finora avevano visto in lui un punto di riferimento per gli interessi di Gerusalemme. Ma lui pensa il contrario: “Come sai, dice Trump a Ravid, sono molto popolare in Israele, penso che” congratularsi con Biden  “abbia fatto molto male” a Bibi.  Trump dice di essere deluso, ma mentre predica lealtà e racconta di essere dispiaciuto di aver visto Bibi “implorare” l’amore di Biden, rende chiare due cose. La prima è che non si è reso conto della portata storica degli Accordi di Abramo, la seconda è  che quello che gli sfugge ancora è come funzionano le democrazie: Bibi, da premier democratico, ha riconosciuto la vittoria di un presidente, pur sapendo che potrebbe non essere decisivo per  Israele quanto il precedente. 

 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.