lira turca allo sfacelo

La Turchia taglia i tassi e la valuta crolla. I disastri dell'erdoganomics

Mariano Giustino

La decisione di Erdogan di tagliare il tasso di interesse di riferimento da 500 punti base è in linea con la sua teoria economica eterodossa. Ma l'economia ne paga le conseguenze 

La crisi valutaria in Turchia si è aggravata dopo l’ultimo taglio dei tassi di interesse che ha causato un nuovo crollo della lira dell’8 per cento, provocandone lo scambio a 17,07 per un dollaro; ciò ha innescato un intervento diretto della banca centrale nel mercato con l’acquisto di dollari nel tentativo di ridurre le perdite, in un clima di forti preoccupazioni per la spirale inflazionistica causata dalla politica non ortodossa del presidente Recep Tayyip Erdogan di tagliare i tassi di interesse per fronteggiare l’impennata dei prezzi, definiti “malsani” dal governatore della Banca centrale. 

 

La decisione di Erdogan di tagliare per la quarta volta negli ultimi quattro mesi il tasso di interesse di riferimento da 500 punti base è in linea con la sua teoria economica eterodossa che contempla una politica monetaria espansiva; il presidente infatti è da tempo convinto che l’inflazione sia causata da alti tassi di interesse che aumentano il costo del prestito e della produzione. Ha per questo messo sotto il suo controllo la Banca centrale sostituendo dal 2019 ben quattro governatori, tre ministri delle Finanze, diversi sottosegretari e, da ultimo, due viceministri che non si sono voluti piegare alla stravagante teoria secondo la quale “l’interesse è la causa e l’inflazione è l’effetto”.

 

Le continue fluttuazioni dei tassi di cambio stanno destabilizzando profondamente la grande economia di mercato emergente turca e fanno temere ai consumatori un ulteriore aumento dei prezzi dei prodotti alimentari di base come il pane. Della farina, bene primario di importazione, è più che raddoppiato il costo. I piani di spesa delle famiglie dei ceti medio-bassi sono stati completamente sconvolti; si manifestano conseguenze nefaste per la popolazione in generale, ma soprattutto per le fasce medie e per quelle più deboli che vedono un costante aumento delle bollette e dei prezzi dei generi di prima necessità.  Anche nel campo sanitario si segnalano interruzioni alla fornitura di alcuni farmaci. Secondo centri di ricerca indipendenti, come l’Inflation Research Group, l’inflazione reale al consumo non sarebbe del 21 per cento, come comunicato ufficialmente dall’Istituto di statistica turco (TÜIK), ma del 58,65 per cento annuo e quindi sarebbe già allineata a quella al dettaglio, a causa dell’aumento dei prezzi delle importazioni. I cittadini turchi sono ora nel panico, corrono ad acquistare dollari per mettere al sicuro i  risparmi che nascondono a casa e, come si dice, “sotto il cuscino”.

 

Il persistente tasso di interesse reale negativo, largamente al di sotto dell’inflazione, sta attivando una fuga dei risparmi in lire verso le valute estere. E stiamo assistendo alla crescente dollarizzazione dei risparmi delle famiglie e dei capitali degli investitori. Non vi è alcun incentivo a mantenere i propri risparmi bancari in lire e infatti a oggi la quota di depositi in valuta estera è il 64,2 per cento  del totale, per un valore di 5,4 trilioni di lire (350 miliardi di dollari). Ciò che spinge il presidente  turco ad agire rivoluzionando il paradigma della politica economica consolidata, propria delle economie di mercato, e soppiantarla con la sua visione ideologica, l’erdoganomics, è il fatto che dovrà affrontare le elezioni entro giugno 2023. Per questo diffida degli effetti recessivi degli alti tassi di interesse. Tassi più alti infatti metterebbero in pericolo ciò di cui ha più bisogno: un’economia vivace che crea occupazione.  In sostanza quella di Erdogan si può definire come una rischiosa pratica di “economia elettorale”: una crisi valutaria autoprodotta. 

 

Ora, sotto la pressione del malcontento popolare che incomincia a manifestarsi, il presidente ha annunciato l’aumento del 50 per cento del salario minimo che interessa più della metà della forza lavoro del paese. A partire da gennaio 2022 il salario minimo passerà dalle 2.825 alle 4.250 lire: aumento, questo, che non risolverà il problema dell’estendersi della povertà, perché largamente inferiore alla perdita del potere di acquisto registrata in questo 2021. I cittadini  stanno perdendo fiducia nella politica del presidente, che farà fatica a recuperare la credibilità che ha perso. L’antica saggezza popolare suggerisce che “la fiducia, come l’anima, non ritorna mai più, una volta che se ne è andata”.

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