A Belgrado c'è un murale che guarda minaccioso verso la Bosnia

Luciana Grosso

La faccia di Ratko Mladic è apparsa per le strade della capitale serba ed è diventata terreno di scontro tra chi vuole toglierlo e chi no. E' stata dipinta a luglio, ma oggi, con le rivendicazioni della Republika Srpska, la sua presenza preoccupa ancora di più

Ci sono guerre che non finiscono mai davvero. Ci si possono mettere di mezzo tutti i trattati di pace e le fiamme eterne del mondo: ma non finiscono lo stesso. Magari non continuano più con bombe e fucili, ma continuano lo stesso. Silenziose. Nelle teste delle persone. La guerra di Bosnia Erzegovina, quella degli anni ‘90, per esempio,  non è mai finita davvero. Anche se, da tempo, da quelle parti non si spara più. Al posto dei proiettili, però, ci sono una pace appesa a un filo e un paese diviso in due entità: una a maggioranza croata e bosniaca, l’altra a maggioranza serba.

Così, da qualche settimana, sul muro di una delle strade del centro della capitale della Serbia, Belgrado, fa bella mostra di sé un enorme murale di Ratko Mladic, il criminale di guerra, responsabile, tra mille altri massacri, anche della strage di Srebrenica e condannato, la scorsa estate, all’ergastolo dal tribunale dell’Aia.

Il murale è comparso a luglio, sul muro di una casa privata della capitale serba e riporta, oltre all’immagine dell’ex generale, anche la scritta "Generale, grazie a tua madre per averti dato alla luce" . Da allora, il murale è diventato terreno di scontro. In tanti (inclusi i proprietari del muro) vorrebbero cancellarlo. Ma non ci riescono, perché i militanti di estrema destra (con la compiacenza della Polizia, in teoria lì per evitare disordini) custodiscono con cura l’affresco. “Questi uomini – scrive il Monde – sembrano usciti direttamente dai circoli loschi tra calcio, mafia e nazionalismo, che hanno legami con il cuore dello stato in Serbia”.

Un affresco, quello di Belgrado, contestato e insieme intoccabile, dal quale l’immagine di Mladic stende il suo sguardo fino alla Republika Srpska, l’entità della Bosnia Erzegovina in cui governo, lingua, forze di polizia e religione sono serbe. Il presidente della regione, l’ex socialdemocratico diventato supernazionalista, Milorad Dodik, da qualche tempo va parlando di secessione e di farsi un esercito solo suo. Probabilmente non succederà. Ma l’importante, nella mente di Dodik è che se ne parli.

 

“Il primo e primario obiettivo di Dodik- ci racconta Alfredo Sasso, studioso e analista di Balcani- in questa fase, è squisitamente interno: autolegittimarsi in vista delle elezioni del prossimo anno, polarizzare l'elettorato e sventare la minaccia di una perdita di potere: per la prima volta da 15 anni Dodik si ritrova con un'opposizione credibile in Republika Srpska. Per questo il suo alzare la posta di questi ultimi giorni va letto innanzitutto in ottica elettorale. Per lui il gioco è win-win: se l’Ue e la comunità internazionale gliela danno vinta e gli fanno fare quello che vuole, può arrivare ad avere una Republika Srpska sempre più autonoma, anche se non indipendente. Se invece Ue e comunità internazionale fanno scattare le sanzioni, lui può ritagliarsi la parte della vittima e averne un buon tornaconto elettorale”. Ma è un gioco estremamente pericoloso, sulla pelle dei cittadini bosniaci, che può avere conseguenze gravi. Mentre Dodik, interessato al suo tornaconto elettorale, tiene vive le braci del  rancore etnonazionalista serbo, quelle stesse braci continuano a bruciare. E lo fanno al di là e a prescindere dal volere e dalla capacità di controllo di Dodik: lo fanno nei murales di Mladic (che in Republika Srpska sono ovunque), lo fanno nei testi delle canzoni turbofolk, lo fanno nelle curve degli stadi. 

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