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il dossier, trump e putin

La storia del “rapporto Steele” dice tutto del cortocircuito tra media e politica

Luciana Grosso

Aria di bufala: gran parte della stampa migliore d’America e del mondo, ora deve decidere se rimangiarsi tutto e dire che, in fondo, sui presunti rapporti con la Russia (e solo su questi), Trump aveva ragione. Occhio alle conseguenze

La stampa progressista americana in questi giorni sta affrontando un grande dilemma in questi giorni: rimangiarsi tutto o no sul dossier Steele sui rapporti tra l’ex presidente Trump e la Russia? Testate come Cnn o Washington Post sostengono che la presidenza di Donald Trump sia un errore da correggere nella storia politica americana; quelle stesse testate, però, note per il rigore del fact-checking e per avere il pallino per la verità, ora devono fare i conti con il fatto che uno degli argomenti principali usati in questi anni contro l’ex capo della Casa Bianca potrebbe essere una bufala.

 

La storia è questa: nel gennaio 2017, dieci giorni prima dell’inizio della presidenza Trump, Buzzfeed pubblicò un rapporto (in teoria segreto) stilato dall’ex agente dei servizi inglesi Christopher Steele (assunto da una società che lavorava per la campagna di Hillary Clinton). Nel rapporto si faceva esplicito riferimento ai legami tra la Russia di Putin e la campagna di Donald Trump. Il rapporto parlava dell’evidenza del fatto che Putin e i suoi uomini avessero individuato da tempo in Donald Trump il cavallo su cui puntare per destabilizzare l’America, e del fatto che ci fossero legami fitti e continui tra il governo russo e lo staff di Trump. Non solo: secondo il rapporto, l’ex presidente  era sotto costante ricatto dei servizi russi (del report fa parte anche la faccenda del pee-tape, quello con le prostitute che mingono sul letto su cui avrebbe dormito Barack Obama).

 

In realtà, gli investigatori dell’Fbi non hanno mai dato troppo peso al report di Steele, credendone vera solo una parte, usata poi per mettere sotto intercettazione Carter Page, un ex consigliere della campagna di Trump. Per il resto, però, al serissimo team di investigatori guidati da Robert Mueller e incaricato di fare luce sul Russiagate, parve subito chiaro che in quelle 39 pagine trapelate ad arte non c’era niente di che.

 

Il problema però fu che la stampa americana, evidentemente tramortita dall’elezione di Trump, non ebbe tanta cautela, cura e prudenza. Anzi, cavalcò, Cnn in testa, la storia. Scrive Axios che “La copertura eccessiva del documento non controllato ha provocato una frenesia mediatica all’inizio della presidenza di Donald Trump che ha contribuito a guidare una narrativa di collusione tra l’ex presidente Trump e la Russia e ha contribuito a creare un divario ancora più grande tra l’ex presidente Trump e la stampa, proprio all’inizio della sua presidenza”. Ora però è intervenuto un fatto nuovo, che potrebbe confermare quel che da tempo si sospettava, ossia che il rapporto Steele è in buona parte infondato. Pochi giorni fa, la fonte principale delle rivelazioni di Steele, Igor Danchenko, è stato arrestato con l’accusa di aver mentito all’Fbi, sia in merito alle sue fonti, sia in merito ai suoi rapporti con la campagna Clinton. E dunque, ora, gran parte della stampa migliore d’America e del mondo, deve decidere se rimangiarsi tutto e dire che, in fondo, su questa singola cosa, Trump aveva ragione, oppure andare avanti come un treno per fermare una futura candidatura dell’ex presidente, senza ammettere gli errori fatti con il rapporto Steele.

 

Il problema è di quelli seri, perché la conseguenza di rimangiarsi tutto quanto detto sul dossier potrebbe essere quella di aiutare Trump e porre un frettoloso cartellino di bufala sulle centinaia di notizie e inchieste fondatissime sul suo conto. Così, mentre Buzzfeed dice che non intende ritrattare nulla di quanto scritto, il Washington Post ha rimosso alcuni dei suoi articoli perché, dice, “Non è più possibile sostenere l’accuratezza della storia”.  
 

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