In America

Il 6 gennaio è il mito fondativo di Trump 2024

"Era una cosa di buon senso". L'ex presidente americano non ha difeso il suo vice, Mike Pence, da chi gridava: “Impicchiamolo!”

Paola Peduzzi

Il libro di Jonathan Karl in uscita questa settimana ricostruisce l'assalto al Congresso e mostra non solo come è stato pianificato ma perché molti non lo considerano più un'insurrezione. Un piano sovversivo per il futuro

Presidente Trump, lei era preoccupato per il suo vice, Mike Pence durante l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio scorso: temeva per la sua sicurezza?
No, sapevo che era ben protetto e mi avevano detto che stava bene.
Ma li sentiva i cori, voglio dire erano terribili…
Be’ sì la gente era molto arrabbiata.
Gridavano “impiccate Mike Pence”.
Be’ perché era una cosa di buon senso. È un buon senso che si dovrebbe tutelare. Se sai che un voto è frutto di un broglio, come fai a validarlo al Congresso? Come puoi?

    

    
Questa conversazione è avvenuta tra Jonathan Karl, uno dei più importanti giornalisti di politica a Washington che lavora per Abc News, e l’ex presidente Trump. Risale al 18 marzo scorso, si è tenuta a Mar-a-Lago ed è contenuta nel libro che Karl pubblica martedì prossimo: s’intitola “Betrayal” e racconta “l’atto finale del Trump Show”. Il sito Axios ha pubblicato un passaggio dell’audio di questa intervista e altri spezzoni saranno trasmessi domenica durante la trasmissione “This Week” su Abc.

 

Il libro di Karl è pieno di documenti, ricostruzioni e informazioni inedite, a partire da questa, che non è piccola: Trump dice che era legittimo minacciare il proprio vicepresidente perché non portasse avanti la validazione dell’elezione del vincitore delle presidenziali del 2020, Joe Biden, l’attuale presidente degli Stati Uniti.

    

      
In un estratto del libro pubblicato dall’Atlantic, Karl racconta il ruolo di Johnny McEntee, ex giocatore di football di ventinove anni che ha iniziato a lavorare come guardia del corpo di Trump e che, nell’ultima fase della presidenza, è diventato “il vice ombra” di Trump, al punto da scrivere un documento  inviato a Pence in cui gli intimava di utilizzare i suoi poteri costituzionali per ribaltare il risultato delle elezioni – poteri che non aveva e che lo stesso team legale di Trump diceva che non si potessero utilizzare. Ospite della trasmissione di Stephen Colbert, Karl ha detto di aver visto delle foto che ritraggono Pence il 6 gennaio in un parcheggio sotto il palazzo del Congresso, nascosto, “senza una sedia, senza una scrivania, senza un posto dove sedersi”. Karl non ha avuto il permesso di pubblicare nel suo libro queste immagini, ma dice che “la commissione d’inchiesta sul 6 gennaio vorrà vederle”.

   

    

Trump sta facendo di tutto per limitare la sua collaborazione con l’inchiesta, ma nei giorni scorsi un tribunale ha detto che l’ex presidente deve condividere i documenti che finora lui non ha reso pubblici (Trump farà appello). In un’altra anticipazione del libro, Karl racconta una conversazione fra Trump e la presidente dell’Rnc, l’organo che governa il Partito repubblicano, Ronna McDaniel. “Me ne vado, faccio un mio partito”, dice Trump negli ultimi giorni della presidenza. “Non puoi farlo, se lo fai perderemo per sempre”, risponde la McDaniel. “Esatto. Perderete per sempre senza di me, e non me ne frega niente”, risponde Trump.

   
  

Il libro di Jonathan Karl diventerà rilevante per ricostruire l’ultimo periodo del trumpismo, quando è diventato concreto il progetto dell’ex presidente di non andarsene dalla Casa Bianca, contestando il risultato elettorale, minacciando i governatori e i responsabili elettorali degli stati contesi e costruendo quello che sarebbe diventato l’assalto del 6 gennaio al Campidoglio. Il Senato  ha deciso di non votare a favore del secondo impeachment di Trump, quello in cui il capo d’accusa è proprio l’istigazione alla violenza che ha portato al 6 gennaio. Il calcolo di allora (era febbraio-marzo) del Partito repubblicano era chiaro: Trump è fuori dalla Casa Bianca, non potrà nuocere più di tanto, possiamo provare a costruire una nuova identità per tutti noi. Non è andata così, e molti repubblicani sono complici, attivi o passivi a seconda dei casi, di questa insurrezione trumpiana ininterrotta.

   

Il fatto di non aver sanzionato a livello istituzionale l’assalto del 6 gennaio e le responsabilità di Trump hanno fatto sì che oggi, nella narrazione trumpiana, il 6 gennaio sia diventato il mito fondativo del post trumpismo, il primo punto del progetto elettorale di Trump per il 2024. Al di là del fatto che Trump si candidi (c’è chi dice che non può, è stato attivato anche un comitato esplorativo per la candidatura dello stesso Pence e pare che pure Mike Pompeo, ex guardiano del trumpismo, voglia candidarsi), le selezioni per le elezioni di metà mandato e gli slogan dei repubblicani sono improntati sulla giustificazione dei fatti del 6 gennaio, sulla loro legittimità, sulla necessità di agire in ogni modo contro l’imbroglione democratico che sta alla Casa Bianca. Se Trump era disposto a tutto allora, al punto di non difendere il suo vice da chi gridava “impicchiamolo!”, a maggior ragione lo sarà ora e nei prossimi anni – e di ostacoli, tra i suoi, per ora ne trova pochissimi.
  

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi