Le brigate trumpiane occupano il Campidoglio

Daniele Raineri

I sostenitori del presidente hanno sfondato il cordone della polizia e sono entrati in aula dentro durante la sessione del Congresso, chiamato a riconoscere la vittoria di Joe Biden. Tra loro adepti di QAnon

All’una del pomeriggio il Congresso americano si è riunito per riconoscere la vittoria del democratico Joe Biden alle elezioni di novembre. Di solito è una formalità che dura tra i venti e i trenta minuti, i voti del Collegio elettorale sono portati in scatoloni di mogano davanti al vicepresidente che con voce solenne li presenta in ordine alfabetico, stato per stato, da Alabama a Wyoming e la seduta è tolta. Ma questi sono ancora tempi trumpiani e anche questo passaggio costituzionale scontato è diventato una scena madre carica di tensioni e di divisioni brutali per il partito repubblicano. I sostenitori del presidente hanno sfondato il cordone della polizia e hanno provato a entrare in aula dentro durante la sessione, perché Trump aveva chiesto loro di andare al Campidoglio in un discorso di un paio di ore prima. SEGUI QUI GLI AGGIORNAMENTI IN DIRETTA.

  

 

Invano poco prima il senatore repubblicano Todd Young aveva cercato di far ragionare i trumpiani che assediavano gli ingressi. “La legge conta più delle opinioni”, diceva. “Ma le opinioni contano per noi!”, ribattevano quelli. “E io ho fatto un giuramento al cospetto di Dio! Di Dio!”. La polizia ha evacuato parte degli uffici, ha usato i lacrimogeni, ha provato senza successo a bloccare l’assalto della moltitudine contro il processo ordinato della democrazia americana, aizzato da due mesi di propaganda senza interruzioni. Anzi: da anni di propaganda senza interruzioni. 

 

 

Tra i primi a entrare dentro il Campidoglio spiccava una felpa di QAnon, il culto complottista che Trump non ha mai disconosciuto, e una bandiera della Confederazione – che è un  tema caro alla destra estrema americana. Mitch McConnell, il capo dei repubblicani al Congresso, poco prima aveva detto con chiarezza che il Congresso non si può sostituire al Collegio elettorale e che quindi non può indicare chi è il presidente al posto degli americani – come invece chiedeva la folla. Ma McConnell ha parlato tardi, per troppo tempo il partito non ha fatto nulla contro il crescendo di dichiarazioni eversive di Trump, in molti casi l’ha amplificato come se fosse uno scherzo, e ora non riesce più a controllare le conseguenze. La scorta ha portato via il vicepresidente Mike Pence e la seduta che avrebbe dovuto confermare dal punto di vista simbolico la vittoria di Joe Biden alle elezioni è stata sospesa. Law & order!, lo slogan del presidente contro le manifestazioni e i disordini, ieri era un ricordo lontano a Washington.  

 

 

La distruzione trumpiana adesso arriva fino agli strati più interni del suo apparato e colpisce persino il vicepresidente Mike Pence, che per quattro anni ha impersonato con abilità il ruolo della spalla fedele e incrollabile. Meno giorni mancano alla fine del mandato e meno bersagli restano da aggredire per il presidente uscente, nello show della sua implosione accelerata. Era appena toccato al capo dei repubblicani al Congresso, Mitch McConnell, per colpa dell’accordo con i dem sul pacchetto finanziario anti pandemia, e poi al ministro della Giustizia William Barr, che il presidente giudica non abbastanza efficiente nella campagna per ribaltare la sconfitta di novembre. Adesso tocca a Pence, che Trump accusa di non voler esercitare l’immaginario potere di decidere davanti al Congresso riunito chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Come si è detto Pence ha un incarico soltanto cerimoniale, ma il presidente è convinto che possa respingere i voti del Collegio elettorale e dichiarare Trump presidente al posto di Joe Biden. E’ il sogno di Trump e della sua base, un colpo di scena che ribalti l’amarezza di questi due mesi e getti nell’umiliazione i democratici. Ma Pence non ha questo potere come ha anche scritto in una lettera e adesso se la deve vedere con un presidente agli ultimi giorni di mandato che non vuole sentire ragioni e con una base che lo accusa già di tradimento e che dice, con la lucidità di chi capisce dopo, di avere sempre sospettato che niente di buono potesse arrivare da quel Pence lì. 

 

(foto da Twitter)

 

Trump in realtà non aveva pensato di pretendere questa salvezza last minute da Pence fino a quando non ha visto uno spot televisivo dei suoi avversari, gli ex strateghi elettorali repubblicani  del Project Lincoln, che detestano Trump e lo considerano la causa della rovina del partito. Quelli del Lincoln Project hanno comprato spazi pubblicitari sul canale Fox e mandano spot che sono pensati “per un’audience di una persona”: Trump. Il trucco ha funzionato. “Il sei gennaio  dice lo spot – Mike Pence pianterà l’ultimo chiodo sul coperchio della tua bara politica Donald e presiederà l’assemblea del Congresso che dichiarerà Biden presidente”. Trump ha visto lo spot e ha cominciato a chiedere l’impossibile a Pence: dì che sono io il presidente. In pratica il Lincoln Project ha hackerato Trump e lo ha provocato per fargli fare un passo falso, così come i servizi russi avevano hackerato le mail dei democratici nel 2016 per metterli in imbarazzo. 

 

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)