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La mania sindacale arriva da Starbucks. Non è detto che funzioni

Luciana Grosso

L’adesione (o persino l’esistenza stessa) delle union è parsa a molti degli americani come una cosa superflua, una cosa da socialisti, da europei. Ora i lavoratori di tre punti vendita della catena, tutti concentrati nell’area di Buffalo, nello stato di New York hanno deciso votare per istituire un sindacato. Cosa può cambiare?

Sale ancora, e non si ferma, la voglia di sindacato e scioperi, negli Stati Uniti. Dopo il referendum (fallito) dei lavoratori del magazzino Amazon di Bessemer, in Alabama e dopo lo strikeoctober che ha portato migliaia di lavoratori a incrociare le braccia, ora tocca ai baristi di Starbucks. O meglio ai lavoratori di tre punti vendita della catena, tutti concentrati nell’area di Buffalo, nello stato di New York. Lì, infatti, si è iniziato a votare per istituire un sindacato. Lo spoglio avverrà dopo l’8 dicembre e se dovesse vincere il sì in almeno uno dei negozi, il sindacato potrebbe entrare, per la prima volta, nella catena di caffetterie.  Se succedesse sarebbe un punto di svolta notevole. Non tanto per Starbucks, quanto perché la vittoria del sì potrebbe essere un efficace barometro delle tendenze della politica americana.

Sino a ora infatti, l’adesione (o persino l’esistenza stessa) delle unioni sindacali è parsa a molti degli americani come una cosa superflua, una cosa un po’ da socialisti o – peggio – da europei, un inutile orpello. In fondo gli americani sono imbibiti di cultura della frontiera e vivono in un mercato del lavoro estremamente fluido in cui, storicamente, perso un lavoro se ne trova un altro. Per dire quanto questa sensazione sia radicata, basti sapere che secondo i dati del Bureau of Labor Statistics, solo l’1,2 per cento dei dipendenti nel settore alimentare e dei servizi, che impiega 1,13 milioni di persone è membro di una union. In tutto, solo il 10,8 per cento dei lavoratori statunitensi fa parte di un sindacato (in Italia siamo circa al 30 per cento).

 

Ma la pandemia, sommata alle code della crisi del 2008 e alla radicalizzazione della politica, ha cambiato le cose. Ora i lavoratori hanno preso consapevolezza del loro potere contrattuale e, per giunta, nelle vele del il movimento sindacale soffia il vento dell’ala più progressista del Partito democratico, quella di Bernie Sanders e  di Elisabeth Warren. Così, negli ultimi due anni, la voce di chi chiede un sindacato ha preso coraggio e forza. E pure qualche malizia: per esempio, il fatto che si sia ottenuto il conteggio dei voti nei singoli negozi e non sul totale dei lavoratori è un’ astuzia di questi ultimi giorni; così come è un’astuzia piuttosto raffinata il fatto che nel suo presentarsi, il sindacato non chieda aumenti salariali, ma solo di poter trattare e discutere di corsi di formazione, programmi sanitari e flessibilità dei turni. Di salari si parla solo in chiave di adeguamento all’anzianità (per altro quasi nulla, in negozi ad alta rotazione di personale come quelli di Starbucks).

Eppure, nonostante il vento per i sindacati e gli aspiranti sindacalisti americani sia evidentemente cambiato, in molti sono ponti a scommettere che il referendum di Buffalo, come quello di Bessemer finirà in niente. Ed è probabile. Lo è sia perché è piuttosto insito nel tipo di lavoratori che si alternano dietro i banconi dei colossi della ristorazione il non prendersi più di tanto a cuore le condizioni di un lavoro che, in genere, fanno solo per qualche mese, in attesa di fare altro. Ma lo è anche perché la dirigenza di Starbucks (un’azienda che ha molto a cuore la sua immagine liberal e progressista) ha avviato una serrata campagna elettorale contro il referendum: Howard Schultz, il più grande azionista di Starbucks, ha tenuto pochi giorni fa un incontro con i lavoratori manifestando la volontà di ascoltare le loro richieste: “Non siamo un’azienda perfetta. Si commettono errori. Impariamo da loro e cerchiamo di risolverli”, ha detto.  Allo stesso tempo, Schultz, ha promesso aumenti salariali (fino a 15 dollari l’ora; oggi, secondo Payscale sono tra i 9 e 14) e l’avvio di una app per gestire i turni con flessibilità. Promesse che, in teoria, dovrebbero disinnescare il referendum. Ma  per non rischiare, la società  ha deciso di assumere molti più dipendenti nei locali chiamati al voto, così da aumentare il numero dei votanti e annacquare il consenso per il sì. Secondo il New York Times “quando i lavoratori hanno presentato la loro petizione alla fine di agosto, il negozio vicino all’aeroporto di Buffalo registrava circa 20 dipendenti aventi diritto al voto. La società ha detto poco dopo che in realtà erano 27. Ora sono 46”.

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