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Haugen sbarca in Europa con il suo progetto costruito a tavolino contro Zuckerberg

Cecilia Sala

L’organizzatissima squadra della whistleblower di Facebook viene apprezzata per la sua popolarità presso l'opinione pubblica. Ma la regolamentazione delle Big Tech è un orgoglio europeo difficilmente migliorabile

La grande accusatrice di Facebook Frances Haugen è sbarcata in Europa, ma qui non sortisce lo stesso effetto clamoroso che in patria. Se nell’Ue guardano con interesse a ciò che le sue parole hanno innescato dall’altro lato dell’oceano, a casa propria si sentono sicuri di aver visto per tempo alcuni pericoli ed essere corsi ai ripari con un certo anticipo sul resto del mondo. La regolamentazione delle Big Tech è un orgoglio europeo e la vicepresidente liberale del Parlamento europeo Dita Charanzová ha detto a Politico “Non sono sicura che (Haugen) possa aggiungere qualcosa di nuovo, qualcosa che non sappiamo”. Secondo lei “è probabile che dia solo ulteriori conferme ai motivi per cui stiamo lavorando al Digital Services Act”. Che insieme al Digital Markets Act rappresenta una rivoluzione in cui l’Ue si propone di riscrivere le regole per l’èra digitale assicurandosi una leadership mondiale in quanto a tutela dei cittadini-utenti e della concorrenza. Il Digital Services Act dovrebbe essere pronto per l’estate e contiene nuove misure per rendere le società direttamente responsabili quando gli algoritmi amplificano contenuti pericolosi oltre a costringerle a fornire i dati per ricerche indipendenti, che è proprio quello che Haugen aveva chiesto al Congresso. I parlamentari europei che ci lavorano sono tutti abbastanza esperti della questione e durante l’audizione di Haugen a Bruxelles ripetevano spesso “quello che lei dice conferma che”. Con tutt’altra enfasi rispetto a “lei è l’eroe americano del XXI secolo”, com’era stata apostrofata a Capitol Hill.

 

Da un punto di vista europeo Haugen è interessante per altre ragioni: perché parla in modo chiaro e contribuisce alla popolarità della battaglia presso l’opinione pubblica. Soprattutto, perché l’esito della guerra che ha dichiarato a Zuckerberg (che lei chiama solo “Mark”, e ha chiesto che si dimetta) sarà con tutta probabilità quello di avvicinare il Congresso alle posizioni del Parlamento europeo. Questo significa che la guerra a Big Tech è pronta a entrare nella sua fase decisiva.

Ad aiutare Haugen con la stampa e con le istituzioni europee è stato Pierre Omidyar, un miliardario iraniano con cittadinanza francese poi naturalizzato statunitense che vive alle Hawaii. Nel 1995 aveva fondato eBay, ma da un po’ di tempo a questa parte ce l’ha a morte con le grandi piattaforme del digitale. In questa marcia contro Zuckerberg, Haugen è accompagnata anche da una squadra di agenzie di Pr degne di un candidato alle presidenziali, e questo aspetto non ha molti precedenti tra i casi americani di whistleblowing. Negli Usa la assistono Bill Burton – che è stato il portavoce di Barack Obama – e Ben Scott, il consulente per la tecnologia di Hillary Clinton che adesso lavora con la Luminate di Omidyar. Sul fronte legale la sta consigliando, tra gli altri e pro bono, il costituzionalista di Harvard Lawrence Lessig, che aveva anche partecipato alle primarie democratiche nel 2015.

A questo punto Mark Zuckerberg somiglia un po’ al protagonista della serie Billions, Bobby Axelrod, e non solo fisicamente (carnagione molto chiara, capelli rossi, sempre vestito in t-shirt e felpa di cotone). Axelrod è davvero uno squalo spregiudicato e capace di tutto, ma lo spettatore è portato a empatizzare con lui per un attimo perché in pochissimo tempo passa da essere un genio, un benefattore e un eroe contemporaneo a essere il bersaglio preferito di una coalizione formata da ex dipendenti ossessionati da lui, competitor, famiglie di senatori da sei generazioni e procuratori federali.