L'inchiesta del Wsj

Da Trump a Neymar, su Facebook se sei un vip puoi dire quello che vuoi

Giulia Pompili

Nel 2020 il social di Zuckerberg ha concesso a 5,8 milioni di utenti di condividere post che ad altri verrebbero rimossi in pochi minuti perché contrari agli standard di controllo ufficiali. L'inchiesta del Wsj

Nella vita offline, una persona molto famosa, a prescindere dal motivo della sua popolarità, gode di trattamenti speciali nella maggior parte delle situazioni. Facebook da anni dice che nella nostra vita online le “very important person” in realtà non sono così “important”, soprattutto sul secondo social network più diffuso al mondo. Mente. Il Wall Street Journal ha pubblicato una lunga inchiesta del suo reporter tecnologico Jeff Horwitz, che racconta come Facebook sia molto diverso da quello che ufficialmente sostiene di essere. Non è quel luogo in cui tre miliardi di utenti sono allo stesso piano dei politici e dei personaggi famosi, soprattutto nelle regole e standard di comportamento. Secondo alcuni documenti interni dell’azienda ottenuti dal Wall Street Journal, esiste un programma, dentro all’amministrazione di Facebook, che si chiama “Xcheck” e che “all’inizio serviva come un organo di controllo delle azioni di personaggi famosi” sul social network. Poi, man mano, quello stesso programma è diventato un “sistema di protezione di milioni di utenti vip” che vengono esentati dalle regole applicate agli utenti comuni del social network.

 

Se un esponente di un partito politico è dentro a questa “white list”, che nel 2020 era composta da 5,8 milioni di utenti, a lui è concesso di condividere fake news sui vaccini o sul complotto di pedofili per sostenere Hillary Clinton, che ad altri verrebbero rimossi in pochi minuti.  Horwitz fa l’esempio della star del calcio Neymar, che nel 2019 poté pubblicare le foto di nudo di una donna che lo aveva accusato di stupro senza che Facebook applicasse i rigorosi standard sulla pornografia, che tra gli utenti comuni vengono applicati anche se si prova a pubblicare un nudo artistico. “A differenza del resto della nostra comunità, queste persone possono violare i nostri standard senza conseguenze”, si legge nella (critica) revisione interna del sistema della whitelist redatta nel 2019 e ottenuta dal Wall Street Journal. Ma la deferenza con cui Zuckerberg decide di trattare i vip ha a che fare con quello che i suoi impiegati chiamano “Pr fires”, cioè l’attenzione negativa dei media che deriva da azioni di contrasto fallite contro personaggi con grande eco mediatica. Prima della sua sospensione, Donald Trump faceva parte della lista bianca. Secondo i documenti interni di Facebook, se la moderazione fosse stata automatica, 90 su 100 delle pubblicazioni dell’ex presidente americano sarebbero state censurate. “Non vogliamo diventare gli arbitri della verità”, ha detto al Congresso Mark Zuckerberg lo scorso anno, ma qualcosa di simile, in fondo, è già successo. 


Il Wall Street Journal ha iniziato l’altro ieri una serie di inchieste sotto il titolo di “Facebook files”, dopo aver ottenuto numerosi documenti riservati dell’azienda di social network più famosa del mondo: sono per lo più comunicazioni interne tra funzionari della compagnia, conversazioni che spesso offrono un’immagine completamente diversa da quello che i vertici dichiarano pubblicamente. Il secondo articolo della serie di inchieste riguarda Instagram, il popolare social di condivisione delle fotografie acquistata da Facebook nel 2012. Nonostante pubblicamente minimizzasse l’effetto del social network sulla salute mentale degli utenti, soprattutto adolescenti, da circa tre anni l’azienda ha commissionato diversi studi per capire “in che modo la condivisione delle foto avesse un impatto su milioni di giovani utenti. Più volte i ricercatori dell’azienda hanno scoperto che Instagram è dannoso per una percentuale considerevole di loro, in particolare per le ragazze adolescenti”. Il Wall Street Journal accusa il colosso Facebook di aver ignorato e secretato i risultati di quegli studi, che evidenziavano come Instagram avesse effetti sulla salute mentale degli adolescenti peggiori di competitor come TikTok e Snapchat. Secondo diversi commentatori, l’inchiesta del giornale di proprietà della News Corp è l’ennesima battaglia di una guerra più ampia, quella tra il tycoon Rupert Murdoch e Mark Zuckerberg.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.