"Liberate Hong Kong, revolution of our time" è lo slogan dei manifestanti anti-Pechino dell'ex colonia inglese (Ap)

Il carcere a vita per una bandiera nera

Giulia Pompili

La prima condanna per sedizione a Hong Kong. Gli slogan vietati da Pechino

Più o meno un anno fa, il 1° luglio del 2020, Tong Ying-kit  ha preso la sua motocicletta, ci ha fissato sopra la bandiera nera simbolo delle proteste dei ragazzi di Hong Kong, ed è passato attraverso un checkpoint delle Forze dell’ordine – non minacciosamente come si potrebbe pensare: Tong non voleva investirli ma sarebbe passato senza fermarsi “per quattro volte” attraverso il posto di blocco. Pochi giorni dopo Tong è stato arrestato, accusato di aver violato una legge che era stata imposta da Pechino e introdotta dal governo locale di Hong Kong praticamente poche ore prima. La Legge sulla sicurezza nazionale è quella che ha trasformato nel giro di pochi mesi l’ex colonia inglese, un tempo simbolo di libertà e autonomia all’interno del territorio cinese, in un luogo per nulla diverso dal resto della Cina. Ieri Tong Ying-kit è stato ritenuto colpevole di sedizione, perché quella bandiera nera, con su scritto “Liberate Hong Kong, la Rivoluzione dei nostri giorni” è stata ritenuta un pericoloso simbolo di indipendenza, quindi da censurare. In un procedimento anomalo per la tradizione della common law a Hong Kong – ma a Hong Kong niente è più come prima, da un anno a questa parte – a Tong non è stata concessa la libertà su cauzione, ma non solo: non gli è stato concesso nemmeno un processo con una giuria, e i tre giudici che  hanno deciso sulla sua colpevolezza sono stati scelti direttamente dal governo locale guidato da Carrie Lam, la fedelissima chief executive dell’ex colonia inglese, ormai una delle leader più sfiduciate dall’opinione pubblica ma che gode del sostegno incondizionato del Partito comunista cinese. La Legge sulla sicurezza prevede anche questo per chi viene perseguito per reati che riguardano il terrorismo e le richieste democratiche.


Il processo contro il giovane Tong è durato quindici giorni e la sua condanna verrà decisa e resa nota nei prossimi giorni. Secondo la Legge sulla sicurezza rischia l’ergastolo. Il carcere a vita per aver “incitato altre persone a commettere la secessione”, usando un simbolo e uno slogan come se fossero armi da fuoco e bombe. L’intero dibattimento è stato caratterizzato dall’analisi storica e linguistica delle parole cinesi che significano “liberazione” e “rivoluzione”: la difesa di Tong sosteneva che lo slogan degli studenti che hanno protestato nel corso del 2019 e del 2020 era aperto a diverse interpretazioni, mentre l’accusa si è avvalsa di autorevoli storici per dimostrare che da un migliaio di anni il significato di quelle parole è sempre lo stesso, di certo sovversivo. Il vicecapo procuratore di Hong Kong Anthony Chau, pubblica accusa in numerosi casi molto mediatici di questi ultimi mesi nell’ex colonia inglese, compreso quello contro il tycoon dei media Jimmy Lai, ha detto nell’arringa finale del processo che Tong ha “deliberatamente” oltrepassato i posti di blocco della polizia e non si è fermato anche dopo i ripetuti avvertimenti, “palesemente” violando la legge e con “assoluto disprezzo per la vita umana”. La condanna di Tong Ying-kit, secondo diversi analisti, è soprattutto l’inizio di una nuova inedita giurisdizione a Hong Kong: l’ex colonia inglese sarebbe dovuta rimanere autonoma fino al 2047, come previsto dai trattati dell’handover, la riconsegna del territorio da parte del Regno Unito alla Repubblica popolare cinese nel 1997. Con più di venticinque anni di anticipo, e in palese violazione di quei trattati, Hong Kong è diventata come Shenzhen, come Shanghai, come Pechino. Eric Yan-ho Lai, fellow in Legge alla Georgetown ed esperto di diritto di Hong Kong, ha scritto ieri su Twitter che la condanna di Tong Ying-kit “segna un pericoloso precedente di processo ingiusto, data l’impostazione pre processuale dei giudici designati dall’esecutivo, l’eliminazione del processo con giuria e la custodia cautelare di un anno”. Inoltre, secondo Lai, i giudici “sono in linea con la dichiarazione del governo di Carrie Lam di un anno fa”, che sottolineava come lo slogan ‘Liberate Hong Kong, la Rivoluzione dei nostri giorni’ fosse in violazione della legge perché sedizioso. “I giudici hanno ritenuto la guida di Tong una grave violenza e un’intimidazione con la quale ha dato seguito alla sua agenda politica, e questo implica che la guida pericolosa unita a slogan politici può essere considerata sufficiente per essere processati per terrorismo. Ultimo, ma non meno importante, i pubblici ministeri ora possono sfruttare questo verdetto per giustificare gli atti di accusa contro chi ha pronunciato quegli slogan oppure li ha mostrati su una maglietta, in violazione degli standard internazionali di libertà d’espressione”, ha scritto Lai. 


Per capire quanto certi simboli siano considerati ormai pericolosissimi per Pechino e per chi aderisce alla narrazione cinese, baserebbe pensare alla storia di Angus Ng Ka-long, campione di badminton di Hong Kong che la scorsa settimana ha esordito ai Giochi olimpici di Tokyo con una semplicissima maglietta nera con su scritto il suo nome, ma non la bandiera dell’ex colonia inglese. Il politico pro Pechino Nicholas Muk ha scritto sui suoi social un post violento contro l’atleta, credendo in un messaggio politico da parte di Angus Ng: le magliette nere erano quelle che indossavano i giovani manifestanti anticinesi. Angus Ng Ka-long ha poi spiegato che la politica non c’entrava niente, che si era ritrovato all’ultimo momento senza sponsor e aveva stampato lui stesso il suo nome sul retro di una maglietta di sua proprietà. Nicholas Muk  ha cancellato il post, ma il clima è questo: quello in cui chiunque si macchi di essere associato ai manifestanti di Hong Kong rischia grosso, tutto.


Attualmente ci sono altre sessanta persone in attesa di processo per aver violato la Legge sulla sicurezza a Hong Kong. Tra di loro ci sono diversi ex membri del parlamentino di Hong Kong. L’altro ieri, al termine dell’inatteso incontro in Cina tra il ministro degli Esteri di Pechino Wang Yi e la vicesegretaria di stato americana, Wendy Sherman, la Cina ha formalizzato alcune richieste a Washington come punto di partenza per ristabilire un dialogo tra le prime due economie del mondo. Prima richiesta: le questioni territoriali cinesi sono solo cinesi, l’America non si immischi. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.