Sinistra e immigrazione, cosa ci dice il caso Danimarca

Luciano Capone

La linea dura danese non è un unicum tra i governi di sinistra e ricorda che esiste un trade-off tra immigrazione e politiche redistributive. In una certa misura si è costretti a scegliere tra apertura dei confini e ampiezza del welfare state

Nel suo primo discorso al Senato da presidente del Consiglio, a febbraio, Mario Draghi aveva indicato la Danimarca come modello da seguire per fare una riforma fiscale. Si trattava della riforma danese del 2008. Ma nel 2021 la Danimarca è da osservare per ciò che sta accadendo sulle politiche sull’immigrazione. Il Parlamento ha approvato una proposta di legge del governo guidato dalla premier socialdemocratica Mette Frederiksen molto restrittiva: la nuova legge, passata a larghissima maggioranza anche con i voti dell’opposizione di centrodestra, prevede che le domande di asilo vengano esaminate in centri che si trovano in non meglio identificati paesi terzi, probabilmente africani (si è parlato del Ruanda), che dovrebbero accogliere i richiedenti asilo una volta accettata la domanda in modo che non mettano piede sul territorio danese. La legge “zero rifugiati” ha suscitato le proteste dell’Ue e dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, perché mina alle basi il sistema di protezione internazionale.

 

Può apparire sorprendente che sia stato un governo di sinistra, in un paese storicamente aperto e con un welfare generoso, ad attuare una politica così dura sull’immigrazione, ma non è così. Anche in Svezia il governo socialdemocratico sta adottando un approccio più restrittivo, così come la Nuova Zelanda guidata dalla stella del progressismo mondiale Jacinda Ardern che è in coalizione con il partito anti immigrazione New Zealand First (Prima la Nuova Zelanda). Non si tratta quindi di un fenomeno isolato nella sinistra mondiale e non è forse un caso che avvenga nel paese con il welfare state più generoso e la pressione fiscale più elevata d’Europa.

 

C’è un’ampia evidenza dell’impatto dell’immigrazione sulle politiche redistributive. Uno degli economisti che più a fondo ha studiato questo tema è il compianto Alberto Alesina, scomparso un anno fa, che in diversi lavori ha mostrato come, in generale, la generosità sia maggiore laddove c’è più omogeneità culturale, etnica o religiosa. Ed è questo uno dei motivi per cui, ad esempio, il welfare state è molto più contenuto in un paese grande ed eterogeneo come gli Stati Uniti rispetto agli stati dell’Europa occidentale più piccoli e omogenei come i paesi scandinavi. In uno studio su 16 paesi europei Alesina mostra che nelle regioni dove maggiore è stata l’immigrazione gli elettori mostrano una minore preferenza per le politiche redistributive. E l’effetto anti redistribuzione è più forte nei paesi che hanno un welfare state più generoso (come i paesi scandinavi) e quando gli immigrati sono extraeuropei (e cioè più diversi a livello etnico, culturale o religioso), mentre diminuisce se gli immigrati hanno livelli d’istruzione elevati (perché si ritiene che non peseranno, o peseranno di meno, sullo stato sociale). Non è quindi un caso che in un’importante politica redistributiva come il Reddito di cittadinanza, il governo Conte abbia ristretto moltissimo l’accesso agli immigrati, escludendo dal sussidio una quota notevole della popolazione che più ne aveva bisogno. Se avesse fatto altrimenti, probabilmente, il M5s avrebbe perso voti anziché guadagnarli.

 

Dell’impatto dell’immigrazione sul welfare state se n’è occupato anche un economista molto di sinistra come Branko Milanovic, che in “Capitalismo contro capitalismo” (Laterza) scrive che è necessaria una certa “omogeneità” per avere un “welfare state sostenibile” e che, nell’èra della globalizzazione, nei paesi con un welfare sviluppato ci può essere “l’effetto perverso di attrarre migranti poco istruiti o poco ambiziosi” con la conseguenza di rafforzare la destra e minare il consenso politico e sociale a favore delle politiche di redistribuzione. Il possibile trade-off fra immigrazione e redistribuzione è qui per restare ed è una sfida soprattutto per la sinistra, che in Danimarca l’ha affrontata con politiche anti immigrazione. E in Italia?

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali