Israele avrà un nuovo governo senza Netanyahu

Micol Flammini

Yair Lapid è riuscito a formare un esecutivo convincendo otto partiti a fare dei grandi compromessi, tutti hanno dovuto cedere e rimangono molti scontenti. Adesso la sfida sarà governare ed evitare l'immobilismo. La premiership sarà a rotazione, inizierà Naftali Bennett, ma per parlare di fine dell'èra Bibi è ancora presto 

Roma. E' cambiato tutto in Israele. E’ stato eletto un nuovo presidente, Isaac Herzog, che sostituirà Reuven Rivlin il prossimo mese. E dopo dodici anni c’è il nome di un nuovo primo ministro: Naftali Bennett, leader del partito nazionalista Yamina. Il governo di unità nazionale con premiership a rotazione si regge su una coalizione di otto partiti, diversissimi tra di loro, su un sistema di equilibrio molto precario, sull’appoggio di un partito arabo e su delle trattative portate avanti da Yair Lapid, leader del partito di centro sinistra Yesh Atid, con lo scopo di porre fine all’èra di Benjamin Netanyahu, primo ministro dal 2009 e capo del Likud. Lapid aveva tempo fino a mezzanotte di ieri per consegnare al presidente Rivlin la lista dei ministri, ha usato quasi tutto il tempo a sua disposizione, i leader dei partiti si sono incontrati fino all’ultimo, perché questa coalizione è complessa e trovare punti in comune su cui lavorare non è stato semplice. Per la prima volta nella storia di Israele, le trattative sono anche state bloccate dal Consiglio della Shura, riunitosi per accordare al partito arabo Ra’am il permesso per proseguire con i negoziati. Mansour Abbas, leader di Ra’am, ha strappato concessioni importanti, si è discussa anche la cancellazione di alcune multe per l’edilizia illegale degli edifici arabi, che non era prevista nei primi accordi di coalizione. Su alcuni media israeliani si insinua che fosse stato Netanyahu ha suggerire la mossa ad Abbas. E’ durata a lungo anche la disputa riguardo al seggio nel comitato che nomina i giudici, che Lapid aveva promesso al Labor e Yamina voleva per sé. Gideon Sa’ar invece ha ottenuto il ministero della Giustizia. Sa’ar è un fuoriuscito del Likud, anni fa aveva tentato di battere Netanyahu alle primarie del suo partito, senza riuscirci. A dicembre ha annunciato la creazione di New Hope, per sfidare il suo ex leader, aveva trascinato fino in Israele gli esperti di comunicazione del Lincoln Project, i repubblicani che negli Stati Uniti avevano fatto campagna anti Trump, ma che per il candidato israeliano hanno ottenuto risultati molto scarsi. Alle elezioni di marzo Sa’ar ha avuto soltanto sei seggi, non è riuscito a imporsi né come leader di una coalizione contro Netanyahu, né come ago della bilancia, ruolo che è toccato a Bennett e inaspettatamente anche a Mansour Abbas di Ra’am. 

 

 

Nel 2023 sarà il momento di Yair Lapid di diventare premier, a Bennett spetterà il ministero dell’Interno. Il partito di Lapid ha avuto 17 seggi, è il secondo partito più votato dopo il Likud, ma Lapid, dopo anni di opposizione a Netanyahu, ha capito che per creare un fronte contro il premier avrebbe dovuto lasciare lo spazio agli altri, lavorare dietro le quinte, promettere, mettere d’accordo, organizzare incontri, in silenzio, con pazienza, durante una guerra iniziata da Hamas che in un primo momento, aveva fatto dire a Bennett e Sa’ar, rappresentanti di due partiti di destra, che mai e poi mai si sarebbero alleati agli arabi. Hanno fatto un passo indietro tutti e due, anche grazie alle promesse di Lapid, e alla sua capacità di attendere. Nel rimpasto del governo che sarà inevitabile nel 2023, gli accordi di coalizione prevedono che Ayelet Shaked di Yamina andrà alla Giustizia e Sa’ar agli Esteri. Benny Gantz, il leader di Kahol Lavan, che lo scorso anno aveva deciso avventurarsi in un governo di unità nazionale con Netanyahu, rimarrà ministro della Difesa.

 

La scommessa di questo governo sta tutta nella sua tenuta. E’ un esecutivo che si regge su innumerevoli compromessi e che da questi compromessi, se reggeranno, rischia di rimanere intrappolato. Per non scalfire la coalizione che si regge su un punto, mandare via Netanyahu, e su molte discordanze taciute, c’è il rischio che temi importanti non vengano mai toccati. Se durerà quattro anni, però, una cosa l’avrà cambiata: avrà dato la prospettiva di un paese che riesce ad andare avanti senza Netanyahu. Di un paese che, anche con un governo immobile, può contare sulla forza e la solidità delle istituzioni, della sua democrazia e non soltanto sull’affidabilità di un premier, che è stato decisivo, ma è parte del motore Israele e non Israele stessa. E’ questa una delle critiche che in molti muovono a Netanyahu, di aver creato l’idea che il destino del paese sia legato a lui. 

Se sarà davvero la fine dell’èra Netanyahu è presto per dirlo, potrebbe essere soltanto una pausa. Ma questo governo non sarebbe stato possibile senza l'alleanza di tre ex uomini del premier: Lapid, Bennett, Sa'ar. 

 

Anshel Pfeffer, analista di Haaretz, dopo l’elezione del nuovo presidente, ha commentato che in passato nessuno più di Isaac Herzog avrebbe potuto sfidare Netanyahu. Gli è mancata la spietatezza e gli è mancato il desiderio. Forse per Lapid non è stata spietatezza, ma desiderio ne ha avuto molto. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.