La Tunisia chiede (di nuovo) aiuto all'Fmi. Per il premier “è l'ultima chance”
Il capo del governo Hichem Mechichi è alle prese con l'ennesima crisi del paese e rivolgersi al Fondo monetario sembra l'unica soluzione. Intanto Lamorgese è a Tunisi per discutere un nuovo accordo sui migranti
Lungo la strada che percorre le campagne del Cap Bon, la punta a nord-est della Tunisia, cumuli di arance gettate via marciscono al sole. Poco lontano, i contadini provano a vendere ai passanti cesti di arance mature, senza successo, il cui prezzo locale può scendere fino a soli 0,20 centesimi al chilo. In questa regione che si affaccia sul Canale di Sicilia viene coltivato il 95 per cento delle arance tunisine destinate all’export, rivendute principalmente nei supermercati francesi. Ma quando il mercato non assorbe le quantità prodotte il prezzo crolla, come è accaduto durante quest’anno di pandemia. Così gli agricoltori sono costretti a liberarsi degli agrumi che non hanno venduto né all’estero né in Tunisia. “Produciamo troppe arance per il mercato europeo ma non soddisfiamo i bisogni del mercato interno, quindi importiamo. I contadini preferiscono le arance ai prodotti agricoli locali perché le sovvenzioni statali sono riservate a chi produce per l’export”, spiega Leyla Riahi, tra i fondatori dell’Osservatorio tunisino dell’economia, che sceglie l’esempio delle arance tunisine per illustrare gli effetti perversi delle politiche economiche degli ultimi decenni. Per Riahi, “gli aiuti concessi dalle istituzioni finanziarie internazionali come l’Fmi e la Banca mondiale hanno orientato l’economia tunisina verso un sistema fondato su esportazione e manodopera a basso costo. L’obiettivo è quello di integrare la Tunisia nel tessuto economico mondiale, e in particolar modo in quello europeo, ma questo ha un costo”.
In un paese la cui economia dipende sempre più dall’estero, dove gli slogan dei movimenti cittadini sono passati da “più democrazia” a “più sovranità”, il Fondo monetario internazionale è ormai considerato un attore della politica tunisina. Sono numerosi gli economisti del paese che, su media e tv locali, riflettono sui rischi di un nuovo piano di aiuti internazionali che corrisponderà inevitabilmente a politiche di austerità, le cui conseguenze sociali restano imprevedibili in un paese attraversato da 8.759 movimenti di protesta solo nel 2020. Eppure il premier Hichem Mechichi non sembra avere scelta: ancora una volta – la quarta in meno di dieci anni, la dodicesima dal 1964 – il governo tunisino chiede aiuto all’Fmi nel tentativo di risanare un’economia in crisi endemica. Ma i finanziamenti dell’Fmi non sono a fondo perduto. Al contrario, devono corrispondere a un programma credibile di riforme strutturali, quindi nuovi tagli a sussidi statali e salari. Le condizioni di un probabile prestito triennale del valore di 3,3 miliardi di euro per il 2021 non sono ancora state rese pubbliche, scatenando così una polemica sulla mancanza di trasparenza così come di un dibattito pubblico sul futuro del paese.
Secondo un documento trapelato sulla France Presse, il governo tunisino sarebbe pronto a rinunciare alle sovvenzioni statali che mantengono i beni di prima necessità come farina, semola, zucchero, latte, olio a un prezzo agevolato e a ristrutturare le imprese pubbliche entro il 2024, la maggior parte delle quali deficitarie. Il governo promette soprattutto di ridurre il peso della massa salariale dei 785 mila funzionari pubblici (il 7 per cento del popolazione del paese) da 17 per cento del pil a 15, incentivando pensioni anticipate e lavoro part-time. A settembre 2020, il debito pubblico tunisino ha raggiunto la barra simbolica dei 100 miliardi di dinari (circa 30 miliardi di euro), cioè il 100 per cento del pil. L’Fmi prevede una crescita del 3,8 per cento durante il 2021, un ritmo insufficiente per compensare la contrazione dell’8,9 per cento del pil registrata nel 2020. “Gli effetti della pandemia si sommano a dieci anni di deficit e un modello di sviluppo basato sulla manodopera a basso costo, in crisi dalla fine degli anni ’90”, riassume l’economista Hakim Ben Hammouda, ex ministro dell’Economia.
Se in passato la Tunisia è riuscita a ottenere prima 1,7 miliardi di dollari nel 2013 e poi 2,8 miliardi nel 2016, questa volta le autorità tunisine non devono convincere solo i propri cittadini, ma lo stesso Fmi. Alla crisi economica, si somma un contesto di forte instabilità politica (tre governi nel 2020, altrettanti rimpasti nel 2021) che ha portato l’Fmi a sospendere l’ultimo programma di prestiti in assenza delle riforme concordate, motivo per cui i negoziati per l’attribuzione di una nuova tranche di aiuti si sono arenati più volte nel corso dell’ultimo anno. L’Unione europea, invece, concederà alla Tunisia un prestito a tasso fisso del valore di 600 milioni di euro destinato a sostenere il bilancio dello stato a breve termine. Il premier Hichem Mechichi avverte: “Questi tentativi di salvare l’economia nazionale sono la nostra ultima possibilità”. Sul tavolo dei negoziati, la diplomazia tunisina prova allora a pesare sul dossier migratorio. Proprio il 20 e 21 maggio Luciana Lamorgese e la commissaria europea agli Affari interni sono a Tunisi per discutere di un nuovo accordo sulla gestione delle partenze.