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Verdetto Chauvin. Un passo avanti sofferto e importante, ma cosa significa per l'America?

Stefano Pistolini

La sentenza che ha riconosciuto l’ex poliziotto colpevole della morte di George Floyd e un processo diventato esemplare. Un effettivo precedente o un inevitabile deterrente?

Niente equilibrismi. La sentenza del processo all’ex poliziotto Derek Chauvin, accusato di aver causato la morte di George Floyd il 25 maggio scorso, è andata dritta in una direzione, riconoscendo l’imputato colpevole di omicidio preterintenzionale e colposo per una pena che può arrivare a 40 anni di prigione. La reazione generale della nazione è stata di sollievo. Quello a Chauvin era diventato il processo esemplare, in cui l’America doveva dimostrare e ribadire la sua propensione per una retta amministrazione della giustizia, a fronte delle disparità che tutti i cittadini conoscono, sia che fingano o meno di non vedere.

 

A questo proposito il primo dato evidente che emerge dalla vicenda di George Floyd è che la mobilitazione popolare, con le sue distorsioni, con la pletora di approfittatori e violenti, con gli errori e le contraddizioni, è stata comunque decisiva nello spingere l’America e il suo sistema giudiziario verso un verdetto esplicito. La mobilitazione militare per le strade di Minneapolis e delle altre metropoli alla vigilia del verdetto parla chiaro: qualsiasi scelta perdonista o salomonica avrebbe acceso la miccia di una guerra civile dai contorni indefiniti. “Sto pregando per un giusto verdetto” ha detto il presidente Biden mentre la giuria era chiusa in camera di consiglio: anche alla Casa Bianca era chiaro che la decisione dei 12 giurati voleva dire guerra o pace.

 

Ma proprio questo è il punto da cui si deve ripartire: cosa significa per l’America d’oggi questo verdetto “quasi obbligato” ed esemplare per l’omicidio di Floyd? È un effettivo precedente, o è un inevitabile deterrente? L’America che per questa causa si è sollevata fino a provocare questa momentanea catarsi, può dirsi soddisfatta o deve mantenere la guardia alta e costante, perché l’effetto della crisi non resti confinato in un’aula di giustizia del Minnesota?

 

 

La sentenza che già è stata etichettata come pietra miliare nella storia della giustizia americana. costituirà solo un primo antidoto, certo non sufficiente ma necessario, per fermare l’inconcepibile disparità di trattamento che i 18 mila corpi di polizia riservano agli afroamericani e ai membri delle minoranze, nella situazione di silenziosa supremazia bianca che continua a non trovare un correttivo in chi governa a Washington? Negli ultimi giorni un poliziotto ha freddato un ragazzino di 13 anni con le mani alzate a Chicago e una ragazza di 16 che aveva lasciato cadere una arma da taglio a Columbus, Ohio (Adam Toledo e Makiyah Bryant i loro nomi, da non dimenticare): altri due minorenni giustiziati sul posto, in episodi dai contorni che resteranno confusi, se su di essi non si applicherà una pressione sociale, politica e soprattutto razziale, pari a quella mobilitata per George Floyd.

 

Ma è giusto che la percentuale di cittadini americani sensibili a questi “incidenti” mantenga perennemente il ruolo di vigilante di un sistema civile, prima che giudiziario, nel quale gli uomini in blu, godono della licenza pressoché impunita di uccidere i membri di comunità razziali che compongono la nazione? Tutto ciò non è una indecente distorsione dei concetti di dignità, libertà e uguaglianza, nonché il resto del mai saldato conto dell’America con il suo peccato originale, ovvero la concezione di cittadini di prima e di seconda classe? (“Ucciso come un animale” è la ricorrente definizione riservata alla fine di George Floyd, per rappresentare la negazione dei diritti appunto “umani” messa in atto con apatico cinismo dall’agente Chauvin). 

 


Quindi la sentenza di Minneapolis è un primo sofferto passo avanti, ma è solo un segmento al cospetto di una linea che è inderogabile tracciare. Il processo per l’uccisione di George Floyd potrebbe essere il ceppo originario di questa pianta, ma sono quelli che seguiranno a segnare l’effettiva direzione che il paese e il suo sistema giudiziario imboccheranno. Mentre la notizia che il presidente Biden si riprometta di procedere, allorché i tempi saranno maturi (in coincidenza col ritiro dell’83enne giudice Stephen Breyer) a nominare alla Corte Suprema la prima donna afroamericana, somiglia alla famosa luce sulla collina, della quale oggi come non mai c’è bisogno per segnare il cammino. 
 

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