Un frame tratto dal video pubblicato dalla polizia in cui un agente ha sparato un colpo di pistola al tredicenne Adam Toledo, con le mani alzate (Ansa) 

"Guardami sono indifeso"

Le mani alzate di Adam, 13 anni, ucciso dalla polizia americana

Stefano Pistolini

Dopo il caso Floyd e a poche ore dall’uccisione dell'afroamericano Duante Wright, l'ennesimo episodio di una storia agghiacciante, in cui la violenza delle forze dell'ordine e la rabbia sociale finiscono per alimentarsi, come in un circolo vizioso

Guardare il video della bodycam del poliziotto che il 29 marzo (ma i filmati sono usciti ieri) a Chicago ha ucciso con un colpo di pistola il tredicenne latinoamericano Adam Toledo richiama alla mente i programmi tv che documentano le imprese degli agenti in azione per le strade d’America. Stavolta però il finale non è un arresto o una rapina sventata, ma un ragazzino ammazzato. Sono le 2.39 della notte e il video si apre con le immagini di un lungo vicolo nel quale, in soggettiva, un poliziotto corre affannosamente, intimando di fermarsi a una smilza figura in fuga, una ventina di metri più avanti. All’ennesimo “stop e alza le mani!”, Adam s’arresta dopo aver gettato qualcosa, che più tardi, a tragedia consumata, si rivelerà un’arma, sebbene sempre inquadrata di lontano.

 

Appena fermo, Adam – 13 anni, va ripetuto per allucinata chiarezza – si volta verso l’agente e alza le mani al cielo, palme aperte. Anche dalla bodycam il linguaggio del corpo è esplicito: “Guardami, sono indifeso”. Ma un secondo dopo il poliziotto gli spara da una distanza di circa 7/8 metri, senza ulteriori scambi verbali. Adam cade fulminato e l’agente si proietta su di lui, mentre avvisa via radio che “a terra c’è un uomo colpito dalla Polizia”. Poi verifica la portata del danno procurato, mentre i colleghi sopraggiungono e si sentono le sirene in arrivo. Adam è riverso, le mani rattrappite in un orribile gesto di estrema difesa. Gli sollevano la felpa per individuare la ferita. Colpito al centro del torace. Il medico legale lo dichiarerà morto sul posto

 

L’inseguimento era stato provocato da un rumore di colpi d’arma da fuoco intercettato da una delle diavolerie tecnologiche in dotazione alla polizie americana, un “sensore di spari”. La mattina dopo è andata in scena la conferenza stampa di Lori Lightfoot, sindaca di Chicago – non un personaggio qualsiasi: prima afroamericana a governare la città, prima donna dichiaratamente omosessuale alla guida di una metropoli. Ha invocato la calma sociale, ma non ha fatto sconti: la storia è quella di un ragazzino ammazzato come un cane, mentre era disarmato e con le mani alzate. Ennesimo, straniante episodio nella sequenza di omicidi di giovani delle minoranze, ad opera delle polizie. 

 

Erano passate poche ore dall’uccisione del ventenne afroamericano Duante Wright, colpito dalla poliziotta Kim Potter a Brooklyn Center, sobborgo di Minneapolis. Il ragazzo si era divincolato mentre veniva ammanettato, dopo essere stato fermato in macchina per un’irregolarità allo specchietto retrovisore e dopo che dai controlli erano emerse pendenze a suo carico. La poliziotta si è giustificata dichiarando che nel parapiglia era convinta di aver impugnato l’immobilizzatore e non la pistola. Ne sono seguite notti di aspri disordini nella città che intanto vive il dipanarsi del processo a Derek Chauvin, l’ex agente responsabile della morte per soffocamento di George Floyd, nel tristemente famoso episodio che ha acceso le micce dell’estate violenta americana dell’anno scorso. 

 

L’infittirsi degli ammazzamenti e l’aumento parossistico della rabbia razziale costituiscono ormai indici destinati ad alimentarsi, anziché moderarsi a vicenda. Ogni forma di contenimento appare accantonata, a favore delle forme più estreme di repressione: si spara prima di aprire qualsiasi confronto. Invocare disfunzioni nel training degli agenti diventa la ricorrente bugia pietosa. Ma c’è una strisciante guerra in atto tra rappresentanti della legge e le minoranze che il buonsenso americano giudica potenzialmente minacciose. I morti sono il risultato di uno stato mentale condiviso in ampi settori della forza pubblica, con una leggibile motivazione razziale. E la licenza di uccidere si perpetra come diabolico antidoto al sollevamento popolare di denuncia. Si grida nelle piazze, mentre si spara nelle strade. La sfiducia dilaga, e le stragi insensate fanno da controcanto alla litania di morte. Quel che è peggio è che nessuno, in nessuna area di quella società, pare avere uno straccio di progetto al riguardo.

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