Victor Orban e Xi Jinping durante un incontro a Pechino nel 2017

L'amore di Orbán per la Cina è un bel guaio per Salvini

Ai sovranisti piace tanto la sua Ungheria, che nel frattempo si trasforma nella base della propaganda di Pechino

Giulia Pompili

Una lunga inchiesta svela i reali risultati dell'attivismo pro-Cina del primo ministro ungherese: nessun beneficio economico, ma molti benefici per la Cina, tra pressioni politiche e spionaggio. La parabola di Orbán somiglia a quella di Grillo e dei Cinque stelle. Ma l'Ungheria piace ancora così tanto al leader della Lega? 

“La nostra posizione nel mondo è chiara, siamo membri della Nato e dell’Unione europea. Questo significa che la nostra bandiera è occidentale, ma oggi sull’economia mondiale soffia un vento da est. Le nostre vele devono essere girate di conseguenza”. Vi ricorda qualcosa questa frase? Potrebbe essere una frase del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, quando cercava di giustificare l’ingresso dell’Italia nella Via della Seta pur cercando di non allarmare troppo gli alleati tra Europa e America. E invece è una frase di Viktor Orbán, pronunciata durante uno storico viaggio a Pechino nel dicembre del 2009, una missione che “ha segnato una svolta decisiva nei rapporti di Fidesz - l’Unione Civica Ungherese - con la Cina”. E’ il 2009 l’anno in cui il futuro primo ministro ungherese decide di riacquistare i favori del Partito comunista cinese, dopo anni di posizioni anticinesi, e inaugura una stagione di amicizia arrivata fino alla pandemia da coronavirus.

 

L’amicizia tra Orbán e Xi Jinping, vista dall’Italia, non solo mette in luce tutte le contraddizioni del M5s, ma è un problema per Fratelli d’Italia, Partito vicino all’Ungheria e da sempre su posizioni anticinesi, ed è un problema soprattutto per Matteo Salvini e la credibilità dell’atlantismo della Lega. Non è un segreto che il leader del Carroccio, che era al governo quando l’Italia firmava la Via della Seta, subito dopo le elezioni del 4 marzo del 2019 tentò di organizzare degli incontri con l’allora ambasciatore cinese a Roma, Li Ruiyu. Poi il dossier cinese finì tutto nelle mani del sottosegretario leghista Michele Geraci, e si fermò lì per puro protagonismo di quest’ultimo, non tanto per una scelta di campo della Lega (quella arrivò dopo). 

 

Ieri Direkt36, uno dei più autorevoli centri di giornalismo investigativo in Ungheria, ha pubblicato un lunghissimo articolo firmato da Szabolcs Panyi che ricostruisce, con fonti e notizie inedite, che cosa è cambiato nei rapporti tra Budapest e Pechino da quando  Orbán è tornato al potere. “La politica di ‘apertura a est’ stabilita da Orbán nella speranza di fiumi di denaro cinese non si è mai  tradotta in importanti investimenti cinesi. L’ambiente favorevole alla Cina in Ungheria, però, è stato utile all’intelligence cinese, che ha messo piede in Ungheria utilizzando aziende cinesi, istituzioni, studenti universitari o persino titolari di obbligazioni di residenza”.  L’aspetto più interessante è che dentro all’inchiesta di  Direkt36 ci sono moltissime analogie con il caso italiano. Proprio come Beppe Grillo, anche Orbán intorno ai primi anni del nuovo secolo non sembrava granché interessato a salire sul carro cinese: “Mostrava in effetti più interesse per il sistema autoritario di Singapore”, scrive Szabolcs Panyi. E come Grillo, nel 2000 da primo ministro ungherese si era attirato le critiche di Pechino per aver invitato nel suo studio il Dalai Lama, interessandosi così alla questione tibetana. Ma tutto cambia con il suo ritorno alla leadership dieci anni dopo, quando “Orbán viene subito impegnato in duri negoziati con la Commissione europea e poi con il Fondo monetario internazionale. Le due istituzioni cercano di costringere il primo ministro ungherese a tagliare il deficit di bilancio e ad approvare misure di austerità per far fronte all’enorme debito accumulato durante i precedenti governi. Diversi ex funzionari governativi hanno detto a Direkt36 che dovevano cercare fonti di denaro alternative, e l’idea di un’ancora di salvezza finanziaria che veniva dalla Cina ha aiutato a rassicurare i creditori occidentali”.

 

Poi però non è successo niente, come non è successo niente dopo che l’Italia ha aderito alla Via della Seta nel 2019. Eppure, da quel momento, il governo di Budapest ha iniziato a fare di tutto per ingraziarsi Pechino, bloccando le risoluzioni anticinesi dell’Ue e diventando (nel 2013) il primo paese dell’Unione ad aderire al piano strategico del presidente Xi Jinping. Secondo i dati dell’inchiesta, però, questo riavvicinamento dell’Ungheria alla Cina coincide anche con una intensificazione del lavoro del controspionaggio ungherese nei confronti di cittadini cinesi. Pechino “si fida solo dei cinesi”, anche studenti, a cui affida “seri compiti di raccolta informazioni e spionaggio”, ma sul territorio recluta anche gli “amici della Cina”, “per raccogliere informazioni o per rafforzare le posizioni cinesi”. Persone che “molte volte non sono nemmeno consapevoli di essere utilizzate dall’intelligence cinese”. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.