Perché l'incendio a Gabes ha riaperto il dibattito sul "rischio Beirut" in Tunisia

Arianna Poletti

In una delle città più inquinate del Mediterraneo vengono prodotte decine di migliaia di tonnellate di nitrato d'ammonio, la stessa sostanza che ha provocato l'esplosione nel porto della capitale del Libano

La mattina di sabato 13 marzo i cittadini di Gabes, sud-est tunisino, si sono svegliati con una colonna di fumo nero che offuscava il sole. La zona industriale, dove hanno sede decine di fabbriche chimiche, è andata a fuoco a seguito di un’esplosione che è costata la vita ad almeno sei persone. Mentre i pompieri intervenivano nel tentativo di domare le fiamme, la popolazione della città più inquinata della Tunisia è tornata a dibattere del “rischio Beirut”: il complesso industriale per la lavorazione dei fosfati gestito dal Gruppo Chimico Tunisino, non lontano dalle fiamme, produce tonnellate di nitrato d’ammonio. 

 

Questa provincia di 100.000 anime costruita intorno ad un’oasi alle porte del deserto ospita dagli anni ‘70 il più grande complesso industriale della Tunisia. Una vera e propria città nella città: 1,5 chilometri quadrati di industrie chimiche altamente inquinanti. Secondo uno studio della Commissione europea, il 95 per cento dell’inquinamento atmosferico in zona è dovuto proprio alla presenza, tra gli altri, del Gruppo Chimico Tunisino, azienda proprietà dello stato responsabile del trattamento del fosfato in arrivo da Gafsa, dove viene estratto. 

 

Nonostante diversi istituti abbiano lanciato l’allarme sui danni provocati dal mix tossico di particelle sottili, ossido di zolfo, ammoniaca e acido fluoridrico emessi, non esiste a oggi nessun meccanismo di controllo della qualità dell’aria in città. E nemmeno del littorale, dove qualche pescatore si ostina a cercare la vita nelle acque marroni che circondano chott essalam (la spiaggia della pace), soprannominata dagli abitanti chott el-maout (della morte). In 30 anni sono state riversate in mare 5 milioni di tonnellate di scarichi di fosfogesso.

 

 

I camion vanno e vengono lungo l’autostrada che unisce Gabes alla capitale. Tra questi, si incrociano anche container di ossigeno medico, sempre più necessario a causa della pandemia. A Gabes, però, l’ossigeno arriva da tempo. Gli abitanti del quartiere di Ghannouch, dove le finestre della scuola elementare si affacciano sulle lamiere grigie del Gruppo Chimico, da anni arrivano in ospedale con asma e malori. È successo il 9 dicembre dell’anno scorso, quando una colonna di fumo arancione ha iniziato a fuoriuscire dai camini: una regolare procedura di degasaggio del Gruppo Chimico Tunisino che ha portato in pronto soccorso decine di persone. È successo ancora questo 13 marzo, quando un container contenente asfalto sarebbe esploso provocando l’incendio, confermano i quotidiani locali.

 

Non lontano dalla fabbrica di asfalto che ha preso fuoco, il Gruppo Chimico Tunisino produce tonnellate di nitrato d’ammonio, principale fertilizzante usato nei campi del paese. Ma si tratta anche un potente esplosivo: è la stessa sostanza all’origine dell’esplosione che ha devastato Beirut. Consapevoli della presenza in città di almeno dieci volte la quantità di nitrato d’ammonio esplosa il 4 agosto (2.750 tonnellate), i cittadini di Gabes hanno osservato le immagini della capitale libanese con più preoccupazione degli altri. Proteste e richieste di chiarimento al Gruppo Chimico Tunisino si sono subito fatte sentire per strada e sui social network. Su Facebook alcuni militanti hanno denunciato la “violazione delle norme di sicurezza all’interno del Gruppo Chimico”.

 

 

“Ricordiamo che la sostanza non è auto-reattiva. Perché questi prodotti diventino pericolosi sono necessarie particolari condizioni”, ha risposto il Gruppo in un comunicato diffuso il 5 agosto. C’è però chi ha fatto notare che un incendio come quello del 13 marzo è un rischio da non sottovalutare, considerando che non lontano dal Gruppo Chimico Tunisino sono state installate fabbriche altamente infiammabili, come la più grande industria del paese di bombole di gas. “Sappiamo che la zona industriale produce almeno 20.000 tonnellate di nitrato d’ammonio ogni anno, nient’altro. Le autorità devono darci più garanzie”, spiega al Foglio Khayreddine Debaya dell’associazione Stop Pollution.  

 

Nonostante il Gruppo Chimico abbia provato a rassicurare i cittadini, nella città che conta uno dei tassi di disoccupazione più alti del paese (25 per cento) la sfiducia nella parola dello stato è totale, specialmente quando questo rappresenta la principale fonte di inquinamento in città e da anni ignora le richieste degli abitanti per un’aria più respirabile. “Gabes viene sacrificata per qualche punto del pil”, riassume Debaya. Ogni giorno decine di sacchi bianchi di nitrato di ammonio vengono trasportati dalla città costiera verso le zone agricole del paese. A febbraio la stampa tunisina riportava l’ennesimo incidente: 27 tonnellate della sostanza sono state sequestrate a Siliana (nord ovest) durante un controllo. Non erano conservate a norma e rischiavano di saltare in aria. 

 

 

Secondo i quotidiani locali arabofoni Shuruq e Al-Anouar, nel 2020 sarebbero addirittura scomparse 12 mila tonnellate di materiale esplosivo, sparite dal reparto del Gruppo Chimico Tunisino dove viene conservato il nitrato di ammonio. Da anni i comitati cittadini chiedono di aprire un’inchiesta per fare chiarezza: “Altre 2000 tonnellate di nitrato sono andate perse nel 2019, e questo ci porta inevitabilmente a sospettare. Chiediamo controlli e trasparenza ”, ha fatto sapere l’associazione locale Stop Pollution.

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