La bandiera della Catalogna (LaPresse)

L'anomalia catalana

Guido De Franceschi

La condanna del rapper Hasél fa il paio con i leader indipendentisti in galera o in esilio e con una vicenda politica, culturale e sociale che non ha paragoni. Anche se la stessa Spagna spesso non se ne accorge

In seguito all’arresto del rapper Pablo Hasél si sono accese proteste in molte città spagnole. E in Catalogna si sono innescati disordini che hanno avuto particolare intensità e violenza: scontri con la polizia, danneggiamenti, arresti, cariche, saccheggi, vandalismi e repressione muscolare. Hasél è stato condannato per oltraggio alla Corona e apologia del terrorismo per aver espresso, in tweet e canzoni, parole ingiuriose verso la famiglia regnante e parole elogiative verso alcune organizzazioni lottarmatiste ormai inattive, come Terra Lliure, l’Eta e i Grapo. Benché Hasél, che è un militante della sinistra estrema, sia anche catalano e indipendentista, gli scontri di questi giorni, hanno poco a che vedere con il secessionismo. Eppure, allo stesso tempo, la vicenda che coinvolge il rapper è senza dubbio l’ennesimo epifenomeno dell’anomalia catalana.

 

Tanto più che, avvampando proprio durante le difficili manovre di confezionamento di un governo da parte dei movimenti indipendentisti che hanno vinto le elezioni del 14 febbraio, i disordini aumentano l’entropia di un contesto politico già caotico. La storia di Hasél fa il paio con quella dei leader secessionisti che si trovano in prigione (come il capo di Esquerra republicana de Catalunya, Oriol Junqueras), o che sono riparati all’estero per sfuggire alle conseguenze di una condanna (come il capo di Junts per Catalunya ed ex presidente della Generalitat, e cioè del governo catalano, Carles Puigdemont). Proprio in questi giorni, peraltro, Esquerra sta cercando di formare insieme a Junts un governo che avrà bisogno dell’appoggio di un terzo movimento indipendentista, la Candidatura d’unitat popular.

 

La somiglianza tra Hasél, Junqueras e Puigdemont si basa su due considerazioni. La prima: tutti loro hanno commesso consapevolmente degli illeciti, che nella legislazione di un paese senz’altro pienamente libero e democratico come la Spagna prevedono pene severe. La seconda: in nessun altro paese paragonabile alla Spagna si dà il caso che dei politici che guidano partiti pacifici di massa e degli artisti abbiano ricevuto condanne al carcere così pesanti. Per quanto riguarda gli artisti, il caso di Hasél non è unico. C’è, ad esempio, anche la vicenda del rapper maiorchino Valtònyc che, poco celebre per la sua musica, è diventato famoso per i procedimenti giudiziari che lo hanno coinvolto con accuse sovrapponibili a quelle imputate a Hasél e che si è rifugiato oltreconfine, finendo per lavorare, come web designer, proprio nello staff “belga” di Puigdemont.

 

Si possono fare varie ipotesi. Sarà forse che negli altri paesi europei i giudici non applicano così ferreamente la legge nei confronti di leader politici pacifici e artisti? Sarà forse che negli altri paesi europei nessun leader politico pacifico si è spinto così in là nella disobbedienza al governo centrale e nessun artista si è spinto così in là nell’esercitare la libertà di espressione? Sarà forse che negli altri paesi europei le spregiudicatezze al di là della legge dei leader politici pacifici e degli artisti non avvengono in contesti già così stressati e così pericolosamente infiammabili? Quello che è certo, però, è che la Catalogna si manifesta come un’anomalia. E che, nella gestione della pazzotica “questione catalana”, si manifesta come un’anomalia, spesso senza accorgersene, l’intera Spagna.

 

Molti, in Spagna, ritengono infatti che si tratti solo di una faccenda di ordine pubblico e di disordine politico, che all’estero non viene compresa come tale. Un editorialista di lungo corso, e su altre questioni molto equilibrato, come Pablo Sebastián, qualche giorno fa scriveva ineffabilmente sul quotidiano online Republica, di cui è fondatore: “I risultati delle elezioni catalane tornano a collocare i capi di due bande di delinquenti golpisti, uno incarcerato e l’altro fuggitivo, come padroni della Generalitat. Qualunque altra lettura di quello che è successo nelle urne in Catalogna non rispecchia la realtà. E qualunque tentativo di pacificazione o dialogo, attorno a un tavolo, in una cella o in rifugi da profughi, è destinato a fallire, salvo che i governanti di questo paese decidano, dall’interno del governo, che si debbano violentare la Costituzione, la democrazia e la legalità”. Solo una questione di leader politici sovversivi, dunque? No. È un po’ più complicato di così.

 

D’altra parte, lo stesso Sebastián continua scrivendo che “tra le cause principali di questa situazione figurano alti dignitari del potere economico catalano e imprese che con abilità e gran dissimulazione finanziano i separatisti e le loro rispettive organizzazioni e i loro apparati di infame propaganda”. La questione catalana, in cui niente sembra più essere normale e che sarebbe del tutto miope attribuire solo a “infame propaganda” e a “bande di delinquenti golpisti”, mostra infatti da anni un fenomeno sorprendente, che emerge anche da letture estremamente ostili come quella di Sebastián. In Catalogna è avvenuto che, sotto le insegne indipendentiste, si sono saldati un tradizionale e radicato animo pragmatico – borghese, conservatore e di impianto prevalentemente provinciale – e un altrettanto tradizionale e radicato animo spontaneista – rosso, anarcoide e di impianto prevalentemente urbano. E da questa saldatura è nato un blocco che si è rivelato tetragono come una società borghese e irriducibile come un gruppuscolo insurrezionalista.La ricostruzione di come ciò sia potuto accadere necessiterebbe di un’analisi complessa. Ma si può provare a illuminare l’intero panorama catalano con alcuni “lampi” isolati.

 

Sant Pancraç

 In occasione delle prime elezioni per il Parlamento catalano del 1980, Convergència i Unió (CiU), la coalizione liberal-democristiana guidata da Jordi Pujol, catalanista ma non indipendentista, aspirava alla vittoria. Si era ancora nel pieno della transizione verso la democrazia e, come ha ricordato pochi giorni fa Enric Juliana su La Vanguardia, Pujol doveva mostrare “le sue credenziali a quelli che lo segnalavano come un politico decisamente borghese”. E così, “di fronte alla tesa e combattiva Catalogna metropolitana in cui trionfavano le sinistre, Pujol esaltava i valori di un’altra Catalogna, allora più silenziosa, che non leggeva Marx e che non aveva la protesta come stella polare”. Il leader di CiU raccontò quindi di provenire da una di quella famiglie che avevano in casa un’immagine di San Pancrazio: “Sant Pancraç, doneu-nos salut i feina” (“San Pancrazio, dacci salute e lavoro”). Pujol vinse quelle elezioni e poi tutte le altre. E CiU governò la Catalogna per ventitré anni, sfruttando a vantaggio dell’autonomia catalana spregiudicati accordi politici con chiunque governasse la Spagna.

 

Il Pacte del Tinell

Nel 2003, il socialista Pasqual Maragall riesce a conquistare la guida della Generalitat. Conducendo una specie di riscossa della sinistra – e quindi di Barcellona e delle popolose cittadine suburbane in cui erano (e sono) più forti il Partito socialista, votato soprattutto da chi è originario di altre zone della Spagna, e gli indipendentisti di Esquerra republicana – Maragall espropria il governo a CiU, che invece aveva (e ha) i suoi feudi elettorali nelle province di Lleida e Girona. E così, attraverso il cosiddetto Pacte del Tinell, si forma un governo tripartito formato dai socialisti, dagli indipendentisti di Esquerra e dalla sinistra post-comunista. Nel 2004 i socialisti, con José Luis Rodríguez Zapatero, conquistano anche il governo nazionale. E nel 2006, in Catalogna, si riedita il tripartito, con José Montilla al posto di Maragall (rimangono nella storia i fallimentari tentativi di Montilla, nativo di Cordova, di parlare in catalano in modo disinvolto, per dimostrarsi presso i suoi alleati di Esquerra come un presidente della Generalitat “degno” della carica). Intanto, la destra spagnola accusa Zapatero di aver corteggiato l’indipendentismo catalano, fino ad allora ultraminoritario e testimoniale, concedendo protagonismo a Esquerra e promettendo una revisione dello Statuto di autonomia della Catalogna.

 

Mas e més

La collaborazione tra socialisti ed Esquerra ha senz’altro pavimentato una strada. E le promesse di Zapatero sulla digeribilità per lo stato spagnolo di una revisione in chiave semi-indipendentista dell’Estatut catalano, impossibili da mantenere, hanno disseminato di mine quella strada. Ma una svolta determinante avviene in occasione delle elezioni catalane del 2010. Guidata da Artur Mas, Convergència i Unió trionfa alle elezioni e torna a governare. Ma è irriconoscibile rispetto a quella di qualche anno prima. Per distogliere l’attenzione dalle sempre più aggressive accuse di corruzione rivolte a CiU (che in seguito porteranno alla damnatio memoriae di Pujol e a varie ridenominazioni di quell’area politica) e per rompere l’ormai longevo sodalizio di Esquerra con i socialisti, Mas decide di “forzare” la tradizionale moderazione di CiU e di intestarsi la battaglia indipendentista. La sua base elettorale non è cambiata: conservatori di centro e di centrodestra, collocati in una fascia di reddito medio-alta e con il loro centro gravitazionale ed emotivo collocato in una Catalogna “ancestrale” di provincia. Ma è cambiato l’atteggiamento verso l’indipendenza di quegli elettori. Intanto, sempre nel 2010, fa la sua comparsa nel Parlamento di Barcellona una nuova formazione indipendentista, Solidaritat catalana, che avrà una vita effimera, ma interessante: il suo leader, Joan Laporta, è stato presidente dal 2003 al 2010 del Barcellona, inteso come squadra di calcio. Quel Barça che i tifosi definiscono “més que un club”, “più di un club” (intendendolo come una nazionale ufficiosa). Quel Barça che è una delle quattro squadre spagnole il cui presidente viene eletto da tutti i soci (più di 200 mila, in questo caso) e alla cui guida – ora, nel 2021 – è di nuovo candidato Laporta (si vota il prossimo 7 marzo). Quel Barça in cui, tra giovanili e prima squadra, ha giocato per una ventina d’anni l’attuale allenatore del Manchester City, Pep Guardiola, che è uno dei volti internazionalmente più noti dell’indipendentismo catalano più acceso.

 

Salvador e Antoni

Per annusare l’impasto catalano di conservatorismo e iconoclastia ci si può rivolgere a due icone, “colte” ed eppure ultrapop, nate da quelle parti. A Salvador Dalí, così visionario nella sua creatività e così scenograficamente anticonformista nelle manifestazioni della sua personalità, ma così comodamente acciambellato nella livida Spagna grigioverde di Francisco Franco. E ad Antoni Gaudí. Uguale a nessuno nella determinazione di portare alle estreme conseguenze la propria esplosiva visione dell’architettura, Gaudì – come sostiene Juan José Lahuerta – “fu un signore reazionario, ultramontano, cattolico intransigente, che lavorava per la borghesia di Barcellona, che in quei tempi era la città delle bombe e della violenza estrema ed era lo scenario per eccellenza della lotta di classe. Di fatto, la Sagrada Familia è il tempio espiatorio della città. E i peccati della città sono la lotta di classe”. Ah, sì, Gaudí era anche un acceso nazionalista catalano (Dalí invece non lo era per niente).

 

4 amici, 4 nonni e 4 mila euro

In una recente inchiesta di Metroscopia è stato chiesto ai catalani non indipendentisti se tra i loro tre migliori amici ci fossero degli indipendentisti. Il 78 per cento ha risposto “solo uno o nessuno”. Dallo stesso quesito rivolto ai catalani indipendentisti emerge un dato identico. Certo, nella creazione di “bolle”, c’entrano il luogo in cui si vive e la classe sociale cui si appartiene. Ecco allora che cosa racconta la serie di infografiche appena realizzata da Kiko Llaneras per il País, incrociando una montagna di dati. L’appoggio all’indipendentismo cresce in base a due variabili: il reddito e il radicamento in Catalogna della famiglia di appartenenza. Tra i cittadini catalani nati in altri posti della Spagna, il sostegno per l’indipendenza va dal 16 per cento di chi ha un reddito inferiore ai 900 euro a mese al 26 per cento di chi guadagna più di 4 mila euro. Tra chi è nato in Catalogna da genitori allogeni, va invece dal 31 per cento al 40 per cento. Per chi ha almeno un genitore nato in Catalogna, va dal 45 al 61 per cento. Per chi ha entrambi i genitori nati in Catalogna, va dal 57 al 68 per cento. E per chi ha quattro nonni catalani, va dal 64 all’87 per cento. Ecco, è anche lì – in quello snodo in cui si intersecano quattro nonni catalani, più di 4 mila euro di reddito e l’87 per cento di sostegno all’indipendenza – che si colloca il cuore di Junts, il partito di Puigdemont che ha raccolto l’eredità di CiU, il partito borghese, conservatore e non troppo urbano che continua a rivolgersi ai catalani laboriosi devoti a Sant Pancraç, il partito che si è nel frattempo trasformato nel movimento politico più irriducibile nello scontro con Madrid.

 

Fiumi e ponti

Nel fiume indipendentista le acque di Junts si mescolano con quelle di Esquerra – un partito di sinistra, più “giovane”, più urbano, più radicato nelle professioni creative, nella scuola, nelle università. E, sempre nello stesso fiume, confluisce anche il torrente pieno di rapide in cui l’elettorato della Candidatura d’unitat popular (Cup) si esercita nel suo rafting anticapitalista. La Cup è una specie di Cabaret Voltaire del postmarxismo ed è la strana creatura politica antisistema che detiene, un’altra volta, le chiavi del sistema catalano (e cioè i seggi in Parlamento necessari al varo di un governo indipendentista). E la Cup, oltretutto, non è molto distante dagli spaccavetrine che si sono visti in azione in seguito all’arresto di Hasél. Questi rimescolamenti di correnti creano onde che intorbidano l’acqua, travolgono quello che si trova troppo vicino alla riva e talvolta rendono pericolante qualche ponte. Come, per esempio, quel ponte che collega con Madrid che ormai si arrischiano a percorrere solo i leader di Esquerra (che, almeno in teoria, dovrebbe essere il partito più indipendentista di tutti). Ma i rappresentanti di Esquerra lo imboccano solo nottetempo, quel ponte, e solo nelle notti più buie, per evitare che qualcuno salti fuori da dietro un cespuglio urlando “botiflers!”, l’insulto supremo che i catalani rivolgono ai “traditori della patria”, utilizzando un fresco riferimento storico del primo Settecento.

 

Un’altra storia

Il vocabolo “botiflers”, parola per eccellenza catalana e catalanista, con il suo etimo incerto che profuma di francese, aprirebbe un discorso sulla lingua che, almeno a tratti, sembra diventato il tema centrale della questione catalana. Da decenni la lingua catalana viene stiracchiata di qua e di là per ragioni politiche. Gli indipendentisti la usano ora come una clava e ora come un cordone per delimitare il privé. I nazionalisti spagnoli, invece, la sputazzano ogni volta che possono e la agitano come un panno rosso quando vogliono attizzare la catalanofobia. Ma questa della lingua è ancora un’altra storia.

 

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