Immagini satellitari catturate dall'Agenzia spaziale europea mostrano le tonnellate di gasolio (in rosso) che si sono riversate nei fiumi Ambarnaya e Daldykan (foto LaPresse)

Perdere l'Artico

Micol Flammini

In Siberia c’è stata una catastrofe ambientale che ha costretto Putin a mettersi in assetto d’emergenza

Roma. Se lo avevamo visto calmo, spesso annoiato e pronto a delegare e a nascondersi durante la crisi legata al coronavirus, il presidente russo Vladimir Putin non ha tenuto lo stesso atteggiamento quando è venuto a sapere che nell’Artico settentrionale 20 mila tonnellate di gasolio si sono riversate nei fiumi Ambarnaya e Daldykan e hanno contaminato un’area di 350 chilometri quadrati. Quasi stupisce, dopo questi mesi strani in cui è apparso pochissimo mentre i russi, come il resto del mondo, venivano colpiti da una crisi sanitaria che continua a contagiare più di 8.000 persone al giorno. Stupisce un po’ anche sapere che mercoledì ha proclamato lo stato di emergenza, mentre per la pandemia non ha mai voluto farlo. E’ tornato al centro del potere e anche al centro della scena e i media governativi ci hanno tenuto a far sapere che il presidente si è arrabbiato molto, che addirittura ha urlato contro gli amministratori della Norilsk Nickel, la centrale da cui proviene la perdita. “Perché il governo è stato avvisato con giorni di ritardo? Devo venire a conoscenza delle situazioni d’emergenza dai social media?”, avrebbe detto il capo del Cremlino. E in effetti è andata così, è stato il governatore della regione ad avvertire il presidente e la notizia l’aveva appresa dai social. E il ritardo in effetti c’è stato: l’incidente è avvenuto venerdì scorso e Putin è stato avvisato soltanto domenica di quella che, secondo gli esperti, è una delle più grandi catastrofi ambientali della Russia postsovietica. Ha mandato subito sul posto, nella città di Norosilk, il ministro per le Emergenze, Evgeny Zinichev, ha anche chiesto che venisse aperta un’inchiesta, ha fatto arrestare il responsabile della centrale elettrica e ha chiesto che tutte le strutture simili nell’Artico vengano sottoposte a controlli regolari e immediati.

 

Putin sa bene che la sua assenza durante la pandemia ha contribuito a erodere il suo consenso e di fronte a questa nuova crisi si è fatto vedere pronto, severo, ha ostentato responsabilità. Ma oltre a un fatto di immagine e di propaganda, c’è anche un fattore economico importante che ha spinto il capo del Cremlino a mostrarsi così presente: l’Artico, che è una delle zone strategiche dell’economia russa. Molti dei depositi estrattivi si trovano nella zona, da lì la Russia estrae gran parte degli idrocarburi e dei metalli che sono fondamentali per la sua economia. E’ una fonte di ricchezza enorme che però è diventata instabile e delicata, Mosca ha scommesso molto su questa zona e sa che dal pericolo di perdere l’Artico deve mettersi al riparo.

 

Secondo la ricostruzione della centrale, l’incidente è avvenuto perché i pilastri che sostenevano la cisterna hanno iniziato a venire giù, ad affondare nel terreno fatto di permafrost, che si sta sciogliendo. Tutta la fisionomia dell’Artico sta cambiando a causa del riscaldamento climatico e così anche la sua industria. Lo hanno riconosciuto ambientalisti, animalisti, economisti e persino Putin che ieri ha detto che i problemi ambientali, che di solito non sono in cima alle sue priorità, sono tra i temi da affrontare il prima possibile per il bene della società.

 

La Russia, hanno stimato gli esperti, potrebbe perdere fino a un miliardo di dollari per l’incidente dello scorso fine settimana e adesso non può permettersi di rinunciare alle sue ambizioni nell’Artico. Ma la strategia è tutta da ricostruire, come gli impianti della stessa Norilsk, che è il maggior produttore mondiale di platino e nichel, ma ha strutture vecchie. Scrive Max Seddon del Financial Times che alcune delle fonderie ancora utilizzate sono state costruite dai prigionieri dei gulag. L’Artico ha la sua storia che è fatta di tanta ambizione ma anche di fragilità. Adesso ha aggiunto una crisi ulteriore all’instabilità di una nazione che ogni giorno riceve segnali della propria debolezza, della necessità di una trasformazione che sia rapida.

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