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L'oasi antivirus

Giulio Meotti

Israele, quel pezzetto di occidente che ha saputo contenere il contagio. “Siamo abituati a chiuderci nei bunker”, ci spiegano i suoi intellettuali

Israele non era pronto. Ma chi lo era?

 

Shuki Shemer, a capo dei centri medici Assuta, la più grande rete ospedaliera privata nel paese, ha detto che mancavano letti in terapia intensiva, dispositivi medici di protezione individuale e ventilatori. E il premier Benjamin Netanyahu, che aveva appena definito la pandemia “la peggiore da cento anni”, era preoccupato. Channel 12 rivela che al culmine della battaglia di Israele per piegare la curva del Covid-19, Netanyahu ha avvertito i membri della Knesset che nel caso di reinfezione da coronavirus “l’umanità potrebbe essere spazzata via”, immaginando “scenari di anarchia globale”. Il direttore del ministero della Salute Moshe Bar Siman-Tov ha avvertito all’inizio della crisi che Israele poteva trovarsi nella “stessa situazione disastrosa dell’Italia e della Spagna”. Intanto, Amos Yadlin, l’ex generale dell’aviazione e già a capo dell’intelligence militare, scriveva un editoriale su Yedioth Ahronoth per avvertire: “La campagna contro il coronavirus è la più critica che Israele abbia condotto dalla guerra del Kippur del 1973. E mentre un virus non è un esercito, per sconfiggerlo è di vitale importanza adottare i metodi precedenti per gestire campagne pericolose e costose che erano spesso piene di incertezza”. Netanyahu disse poi ai suoi ministri che Israele avrebbe potuto avere un milione di pazienti e diecimila decessi entro la fine di aprile, con gli ospedali sopraffatti. Alle accuse di aver seminato il panico e spinto inutilmente l’economia verso la crisi, Netanyahu ha appena risposto: “Non stavamo spaventando la gente; abbiamo salvato la gente. I risultati di Israele sono un modello per molti altri paesi”.

 

Non c’è paese dell’Ocse che abbia fatto meglio contro il Covid. Israele per ora si è fermato a 250 morti. Per avere una idea, Belgio e Svezia, paesi grandi come Israele, di morti ne hanno avuti quasi diecimila il primo e tremila il secondo. Una storia di successo che affonda le radici nella storia dello stato ebraico.

  

Il ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha appena annunciato che l’Istituto di ricerca biologica ha raggiunto lo sviluppo di un anticorpo che neutralizzerebbe il coronavirus. Questo istituto è un’unità segreta che lavora direttamente per l’ufficio del premier. Nel 1948, all’interno dell’esercito ebraico fu istituito un dipartimento scientifico, noto come “Hemed”. Era ospitato in un edificio in un aranceto fuori Ness Ziona, a sud di Tel Aviv. Nel 1993, uno degli scienziati coinvolti nell’istituto e quarto presidente dello stato ebraico, Ephraim Katzir, è stato intervistato da Hadashot: “Sapevamo che nei paesi circostanti stavano sviluppando armi biologiche. Credevamo che gli scienziati avrebbero dovuto contribuire al rafforzamento dello stato di Israele”. Oggi lo dirige il professor Shmuel Shapira e impiega 350 persone, tra cui circa 160 scienziati con dottorati in biologia, biochimica, biotecnologia, chimica analitica, chimica organica, chimica fisica, farmacologia, matematica, fisica e scienze ambientali. Il pubblico non sa cosa succede dietro le mura altamente custodite dell’istituto, accusato in passato di essere dietro il tentativo di eliminazione del capo di Hamas, Khaled Mashaal, ad Amman nel 1997.

 


“Siamo sotto una sorta di ‘blocco’ dall’inizio della nostra esistenza e l’assedio non è mai veramente diminuito” (Yossi Klein Halevi) “Gli anni Settanta per l’Europa sono stati importanti come gli anni Trenta, la pacificazione di fronte al nemico islamista” (Amnon Lord)


 

Quando il ministro della Sanità israeliano, Yaakov Litzman, è stato trovato positivo al coronavirus all’inizio di aprile, chiunque era entrato in contatto con lui è finito in quarantena. Non solo i membri del governo, ma anche Yossi Cohen, il direttore del Mossad, il servizio segreto. Si è scoperto così che la potente agenzia di intelligence è stata profondamente coinvolta negli sforzi di Israele contro il virus. E’ stato coinvolto Dani Gold, il padre del sistema antimissile di Iron Dome, che guida la direzione per la ricerca e lo sviluppo della Difesa. A gestire i test, Israele ha messo il capo della Sayeret Matkal, una celebre unità clandestina dell’esercito. E se lo Shin Bet, il servizio segreto interno, è stato incaricato di tracciare le infezioni, l’intelligence militare ha rifocalizzato le sue ricerche da nemici come l’Iran e Hezbollah al coronavirus. La famosa Unità 8.200 ha aperto un centro di informazioni sul coronavirus presso il Sheba Medical Center per aiutare a fermare la diffusione. I cervelloni dell’analisi israeliana intanto si riunivano all’Institute for National Security Studies per simulare vari scenari sul virus. Vi partecipavano ex capi di stato maggiore come Gadi Eisenkot e numerosi ex generali di brigata. Ora si fanno scenari su una eventuale seconda ondata.

  

“Israele è abituato alle emergenze nazionali, siamo stati sotto una sorta di ‘blocco’ dall’inizio della nostra esistenza e l’assedio non è mai veramente diminuito”, dice al Foglio Yossi Klein Halevy, intellettuale americano-israeliano che vive a Gerusalemme, dove lavora allo Shalom Hartman. “Ci ritroviamo in conflitto con i nostri vicini ogni pochi anni. E così gli israeliani rispondono all’emergenza con una disciplina autoimposta, che decade immediatamente al termine dell’emergenza. Il coronavirus è la nostra prima emergenza non di sicurezza, ma abbiamo applicato gli strumenti che abbiamo imparato da quelle situazioni. Ad esempio un blocco immediato dei confini. E chiarezza da parte dei leader, che sono apparsi ogni sera in tv per fornire aggiornamenti. Siamo una società abituata a mostrare una forte solidarietà sotto minaccia e questo è successo anche stavolta. Sono stato particolarmente commosso nel vedere i numerosi esempi di arabi israeliani ed ebrei israeliani che lavoravano insieme negli ospedali. Un recente sondaggio mostra uno stupefacente 77 per cento degli arabi israeliani che afferma di sentirsi fortemente legati al destino di Israele. Questo è il risultato della solidarietà che abbiamo vissuto tutti durante il coronavirus. Tendiamo a pensare alle nostre istituzioni come caotiche, ma la verità è che lavorano bene insieme in caso di emergenza. E sì, lo stiamo vedendo nel modo in cui il Mossad ha cercato di acquisire attrezzature mediche e come le agenzie di difesa e il sistema sanitario stanno lavorando insieme per trovare una cura. Israele offre al mondo un modello su come rispondere alle emergenze, anche se va sottolineato che siamo una specie di isola in medio oriente, il che rende più facile rispondere in modo efficace rispetto, per esempio, all’Europa”.

 

Secondo Leon de Winter, uno dei più noti scrittori olandesi che ha un pezzo di famiglia in Israele e autore de “Il diritto al ritorno”, c’è qualcosa di culturalmente unico in Israele che lo rende pronto. “Israele è l’unica nazione sulla terra la cui esistenza è continuamente minacciata di morte”, dice De Winter al Foglio. “E prima che fosse creato, le persone che vennero a viverci furono per generazioni di fronte alla minaccia. La vita non è mai stata una realtà, ma un prezioso miracolo contro ogni previsione. Non è un’esagerazione affermare che questa è una parte essenziale dell’esperienza ebraica da migliaia di anni. Forse i padri ebrei fondatori di Israele desideravano che potesse lentamente abbandonare la mentalità ebraica, ma non è così. La vita può sbocciare solo quando viene rispettata la consapevolezza della sua fragilità”.

 

Ma Israele, così particolare, dovrebbe essere visto dall’Europa come un universale emulabile. “Se l’occidente non segue l’esempio di Israele, collasserà lentamente”, dice De Winter. “Il senso dello stato-nazione è forte e vivo in Israele e, nonostante tutti gli sforzi per creare un’Unione europea transnazionale, le linee di difesa contro la pandemia sono completamente nazionali. E la difesa dal virus di Israele non è collettivista come in Asia ma orientata alla comunità, una lotta di individui liberi vincolati da un destino comune”. Mossad, esercito, scienziati, civili, politici, medici…Un paese unito contro il virus. “Soltanto se c’è un sentimento di identità nazionale, un paese può organizzarsi efficacemente contro un ‘nemico invisibile’”. E allora cosa è mancato all’occidente? “Il postmodernismo e il marxismo moderno hanno portato via il senso della storia dell’occidente con le sue tragedie e vittorie: niente verità, niente falsità, ma relativismo culturale”, conclude De Winter al Foglio. “Ci rendiamo conto che nulla viene gratis e tutto deve essere conquistato. Come Israele”.

 

Questa mobilitazione contro la morte in Israele si riflette anche nell’abbondanza di vita, che l’Europa ha sempre meno. “Penso che ci sia qualcosa di culturalmente unico che si esprime nell’alto tasso di natalità non solo tra ebrei e musulmani devoti, ma anche tra i laici”, dice al Foglio Joshua Muravchik, saggista e intellettuale americano neoconservatore, autore su Israele del libro “Liberal oasis”, su come ha fatto fiorire il liberalismo in una terra che lo ha sempre rigettato. “C’è uno spirito di amore per il paese più profondo che in altri paesi occidentali, e il senso di essere ‘in tutto questo insieme’ che deriva dall’aver sempre avuto nemici dediti alla distruzione del paese. Lo si può vedere nell’esercito, dove gli ufficiali accompagnano i loro soldati nel pericolo. Puoi vederlo nei kibbutz, l’unico posto nella storia che ha praticato il socialismo con successo (anche se alla fine ne sono usciti) perché faceva parte di un progetto più ampio. Puoi vederlo per Yom HaShoah, quando l’intero paese si ferma”. Muravchik dice che Israele ce la fa a causa dell’identità. “Usiamo il termine ‘occidente’ per quello che un tempo chiamavamo ‘cristianità’, un sentimento religioso condiviso alla base della società europea e che le da coerenza. Temo che il regno dell’incredulità sia oggi un grande ostacolo al fiorire di queste società. Israele non è un paese altamente religioso, ma ha il senso di tenere nelle proprie mani il destino del popolo ebraico. E c’è nell’ebraismo la distinta dualità di popolo e fede, una dualità che si fonde in una certa misura in Israele. Così per Yom Kippur le strade si svuotano e nessuno guida. Strano in un paese in gran parte laico, ma anche ebrei laici lì sentono che merita il loro rispetto. Penso che se l’Europa ha bisogno di modelli ciò di cui ha bisogno è riscoprire il suo centro spirituale. Da ciò seguirà tutto il resto, quello economico, politico. Gli israeliani amano la vita. Esistono sondaggi globali che dimostrano che il loro amore per la vita è tra i più alti del mondo, ma vivono anche vicino alla morte. Pochi israeliani non hanno subito perdite a causa della guerra o del terrorismo. Ogni israeliano sa com’è entrare in un rifugio antiaereo. Quando è stato detto loro che questo virus era molto letale e richiedeva un’azione urgente e un sacrificio per la conservazione della vita, questo avvertimento lo hanno preso sul serio. Ma gli israeliani fanno parte di un grande progetto, la redenzione del popolo ebraico dopo duemila anni di diaspora, persecuzioni, espulsioni, massacri. Sono fortemente motivati perché sentono uno scopo. Mi chiedo se gli europei in questa epoca post-cristiana abbiano uno scopo. E gli americani? Credevo di sì, ma non ne sono più sicuro”.

 

Israele non ha soltanto piegato la curva del virus dentro i propri confini, ma ha anche collaborato con i palestinesi, dove la pandemia non è dilagata. Dice Muravchik che “il numero di palestinesi che sono entrati in Israele per cure mediche in un anno è di circa 120.000. Questo su una popolazione totale di tre milioni. Sembra che ogni volta che si ammalano vadano in Israele e Israele li cura. E i cittadini arabi israeliani sono completamente integrati nel sistema di assistenza sanitaria come pazienti ma anche come personale medico. Molti studenti di medicina arabi israeliani e palestinesi si preparano negli ospedali israeliani”.

 


“Se l’occidente non segue l’esempio di Israele, collasserà lentamente. Nulla è gratuito nella vita” (Leon de Winter) “Gli israeliani hanno uno scopo. Gli europei in epoca post cristiana meno. E gli americani? Non ne sono più sicuro” (Joshua Muravchik)


 

Amnon Lord è l’ex direttore del quotidiano Makor Rishon. “Penso che gli israeliani conservino un senso di unità di fronte al pericolo”, dice Lord al Foglio. “Nonostante anni di libera economia di mercato, esiste una forte solidarietà sociale e nazionale. Molte situazioni di emergenza hanno reso gli israeliani disposti ad ascoltare le istruzioni. Nonostante lo storico conflitto nazionale, nel sistema sanitario in Israele c’è una completa integrazione di arabi ed ebrei e lo si può vedere nel giorno dell’indipendenza quando due medici, un arabo e un ebreo, accendono insieme la torcia”. Israele nella gestione del virus viene accostato a Taiwan, Corea del sud e Singapore. Ma secondo Lord è diverso. “Israele è un moderno paese asiatico avanzato che ha interiorizzato i valori occidentali: democrazia, stato di diritto, modernismo e scienza. Penso che la principale differenza rispetto all’Europa sia la forte leadership centralizzata, la capacità di mobilitare il know-how operativo e il riconoscimento che il primo impegno del governo è proteggere i cittadini”, dice Lord. “Tutte le istituzioni operative e militari si sono mobilitate a sostegno del sistema sanitario. E’ la leadership di Netanyahu. Ha riconosciuto in una fase iniziale che la pandemia poteva essere letale e ha assunto tutte le decisioni necessarie. Ha instillato il senso di urgenza ed emergenza; e tutti hanno ricevuto il messaggio. Ha lavorato a pieno ritmo con un solo obiettivo: salute pubblica, salvare vite. Nel frattempo, fanculo l’economia. Ricordiamo che l’economia è stata la conquista di Netanyahu. Ha accettato la strategia secondo cui il rilancio dell’economia dipende dalla situazione sanitaria”. L’Europa impari dal tanto esecrato stato ebraico. “Penso che alcuni paesi occidentali abbiano dimenticato quali sono gli obblighi dello stato. I paesi europei purtroppo hanno adattato la politica di pacificazione all’islamismo e al terrorismo. E’ successo molto tempo fa, negli anni Settanta, un decennio molto importante come gli anni Trenta”.

 

La differenza fra Israele e gli alleati europei fu evidente nella prima, fatale settimana di marzo. Avevano tutti davanti agli occhi l’esempio italiano. Eppure, Emmanuel Macron andava a teatro a vedere “Par le bout du Nez”. Sembrava uscito dal libro di Manuel Chaves Nogales, “L’agonia della Francia”, dove racconta che mentre i soldati tedeschi marciavano per le strade di Parigi i francesi sciamavano fuori dai cinema, “in tempo per l’aperitivo al bistrot”. Intanto, le autorità spagnole invitavano i cittadini a scendere per strada per la festa della donna e l’epidemiologo Fernando Simón, in conferenza stampa, dichiarava: “Se mio figlio mi chiedesse se può andare, gli direi di fare quello che vuole”. Un suicidio nazionale, tanto da spingere Juan Luis Cebrián, cofondatore del quotidiano El País, a scrivere: “Le lacrime di coccodrillo di così tanti politici che sostengono che nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa del genere non hanno alcun senso”. L’8 marzo, intanto, mentre in Italia erano già morte 366 persone per il virus, in Belgio il primo ministro Sophie Wilmès non vedeva problemi nel fatto che masse si riversassero al Salon Batibouw (fiera immobiliare), la Foire du Livre (fiera del libro) e, naturalmente, la Giornata della donna. Il Belgio avrebbe battuto ogni record di morte pro capite in Europa. Non andava meglio nell’Inghilterra del keep calm and carry on. Boris Johnson stringeva mani come una star e liquidava il pericolo incombente augurandosi l’immunità di gregge. Di lì a poco avrebbe avuto bisogno di “litri e litri di ossigeno”. L’occidente era talmente compromesso da non essersi difeso da una pandemia neanche quando il suo vicino di casa italiano stava già riempiendo i cimiteri. E Israele? Aveva già chiuso i confini da due settimane, imposto la quarantena a chiunque rientrasse nel paese e ordinato al suo servizio segreto di trovare tutto il necessario per far fronte al virus che stava già lavorando all’interno. Ma Israele è il piccolo occidente che ce l’ha fatta.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.