Shinzo Abe - Foto LaPresse

Il contagio delle guerre commerciali: Giappone contro Corea

Giulia Pompili

Sembra che Shinzo Abe abbia imparato da Trump l’arte della trade war usata per fini politici. In questo caso però non si tratta di imporre dazi, ma di burocratizzare il sistema

Roma. Il gabinetto di governo di Shinzo Abe ha approvato ieri una nuova misura economica contro la Corea del sud, cancellando il paese dalla cosiddetta “lista bianca” dei paesi – per lo più occidentali – che hanno una corsia preferenziale per fare affari in Giappone. Il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha minacciato contromisure, e sembra sempre più probabile che la disputa finirà davanti all’Organizzazione mondiale del Commercio. “Non perderemo un’altra volta contro il Giappone”, ha detto Moon durante una riunione d’emergenza con i ministri. L’ultima misura annunciata da Tokyo dovrebbe entrare in vigore il prossimo 28 agosto, mentre già da qualche settimana il governo aveva messo in atto alcune limitazioni all’esportazione in Corea del sud di tre materiali fondamentali per la produzione di semiconduttori e di display – con conseguenze per l’intera filiera, visto che la Corea del sud produce il 60 per cento del mercato dei semiconduttori. Nel caso della guerra tra Tokyo e Seul non si tratta di imporre dazi, ma di burocratizzare il sistema: gli esportatori avranno bisogno di una autorizzazione specifica ogni volta che vorranno portare in Corea del sud almeno 850 tipi di materiali e prodotti.

  

Sembra che il Giappone di Shinzo Abe abbia imparato da Donald Trump l’arte della guerra commerciale usata per fini politici. Mentre tutti si occupavano della trade war tra Washington e Pechino, nel Pacifico si consumava per la prima volta un passaggio fondamentale: da queste parti, fino a poco tempo fa, nessuna disputa diplomatica sarebbe mai arrivata a toccare il business. Nella consuetudine politica giapponese e sudcoreana i canali di comunicazione commerciali sono intoccabili, perché interdipendenti. Secondo gli analisti, la mossa di Abe non avrà grosse conseguenze economiche sul piano della produzione mondiale, ma è un segnale politico, e rischia di dare il via a una reazione a catena inedita e difficilmente prevedibile nelle sue conseguenze.

  

Seul e Tokyo sono ai ferri corti già da mesi. Tutto ha inizio a fine giugno, con una sentenza della Suprema corte di Seul che ha confermato la condanna della compagnia giapponese Mitsubishi a indennizzare le famiglie dei sudcoreani che avevano lavorato forzatamente nella fabbrica di Hiroshima negli anni Quaranta, durante l’epoca coloniale. La Mitsubishi, in una decisione presa insieme con il governo di Tokyo, aveva fatto sapere di non volere pagare alcunché. E questo anche perché poco prima la Corea del sud aveva formalmente chiuso la Reconciliation and Healing Foundation, una fondazione finanziata dai giapponesi per compensare le cosiddette “donne di conforto”, le donne sfruttate dall’esercito giapponese durante il periodo imperiale (è ancora oggetto di disputa storica se fossero prostitute regolarmente pagate oppure schiave del sesso). La fondazione era stata creata dopo un accordo firmato dall’ex presidente sudcoreana Park Geun-hye e il premier giapponese Shinzo Abe, nel 2015. L’Amministrazione sudcoreana di Moon, come annunciato già ai tempi della campagna elettorale, considera nullo quell’accordo, e chiede ancora le scuse formali del governo di Tokyo e ancora indennizzi. La storia è fondamentale per capire quanto sia profonda la polarizzazione dell’opinione pubblica in paesi dove gli elettori sono soprattutto anziani: non è un caso che il Giappone di Shinzo Abe abbia deciso di intraprendere la strada della guerra commerciale subito prima delle elezioni della Camera bassa del Parlamento, che si sono tenute il 21 luglio scorso.

Nel frattempo in Corea del sud il boicottaggio dei prodotti giapponesi, complice un martellamento sulla stampa nazionale che dura da settimane, sta assumendo dimensioni impressionanti (il marchio d’abbigliamento Uniqlo, dicevano fonti al Korea Herald, ha registrato un 40 per cento in meno di vendite in Corea del sud) , e com’è tipico della società sudcoreana si susseguono frequenti manifestazioni spontanee contro l’Amministrazione Abe. E ci sono anche gli “agenti provocatori”: una settimana fa, durante le prime esercitazioni militari congiunte tra Cina e Russia, aerei da guerra di Pechino e Mosca hanno violato quello che la Corea del sud considera il suo spazio aereo di identificazione militare, attorno alle isole Dokdo, che il Giappone rivendica con il nome di Takeshima. Un modo per far uscire allo scoperto la disputa territoriale, che è ben riuscito: entrambi i paesi hanno notificato quasi contemporaneamente alla Russia una lettera di protesta (ma solo i jet sudcoreani hanno potuto sparare colpi di avvertimento). Intanto, l’unico canale di comunicazione tra i due paesi ancora in piedi è quello dell’intelligence.

Giulia Pompili

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.