Arabia saudita (foto LaPresse)

2019, fuga delle donne dai regni arabi

Daniele Raineri

Centinaia di ragazze evadono dal sistema della guardiania musulmana legalizzato in Arabia saudita e negli emirati contigui per cercare salvezza in occidente. I governi le catturano ma loro sono sempre di più

Negli anni Sessanta in molti cercarono di superare la Cortina di ferro tra i paesi comunisti e i paesi occidentali. Erano dissidenti che non sopportavano più di vivere sotto i regimi dell’est che erano alleati con l’Unione sovietica, temevano per la propria vita e aspiravano a partecipare a una società migliore, più libera e rispettosa. Conosciamo tutti i racconti di chi tentava di superare il Muro di Berlino perché dall’altra parte c’era un posto che valeva il rischio, di chi era catturato mentre ci provava, dei cecchini della Germania dell’est che sparavano a vista. Oggi molte donne dei paesi del Golfo stanno facendo lo stessa cosa e replicano lo stesso tentativo di fuga di massa, soltanto che a differenza di allora non c’è un muro, non ci sono guardie con i fucili e i riflettori, c’è un’atmosfera di normalità politica e le loro evasioni avvengono in mezzo a folle di turisti. Aspettano il momento più opportuno, spesso approfittano di una vacanza in qualche altro paese e alla prima occasione utile scappano dalla famiglia e dall’istituzione saudita della guardiania, che si basa su un’interpretazione rigida del Corano e obbliga ogni donna a essere sempre sotto la sorveglianza di un maschio di casa – sia esso il padre o il fratello – e vanno verso un aeroporto. Appena arrivano in un paese terzo chiedono asilo politico e il trasferimento in qualche paese che le accetti, come l’Australia e il Canada.

 

Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati nel 2018 il numero di donne saudite che ha chiesto asilo politico è triplicato rispetto al 2012 – sono state 815 – e quello delle donne degli Emirati arabi uniti e del Qatar che hanno chiesto asilo è raddoppiato. Ottenere l’asilo politico non è difficile per le donne dei paesi del Golfo perché sono sottoposte a un trattamento repressivo di cui tutti sono perfettamente consapevoli. L’idea ipocrita di fondo è che in generale abbiano accettato di vivere così e non desiderino cambiare, ma nel momento in cui una donna si fa avanti e dice: non voglio essere costretta a vivere sotto un mantello e con la testa coperta e non voglio essere scortata ovunque da un parente, pochi governi hanno argomenti per dire no. Sono casi autoevidenti di asilo politico. Mentre vediamo centinaia di combattenti europei dello Stato islamico arrendersi nel deserto siriano, dove erano arrivati cinque anni fa con l’idea di fondare un Califfato, e mentre continuiamo a batterci il petto per le sorti dell’occidente perché lo consideriamo pavido e temiamo che prima o poi sarà islamizzato, non vediamo il grande movimento in senso inverso: le donne che scappano dai paesi musulmani e cercano l’occidente perché è il luogo che considerano migliore per passarci il resto della loro vita.

   

Una delle mete preferite dalle dissidenti in fuga è la Turchia, perché spesso le famiglie del Golfo la scelgono per le vacanze e perché in poche ore di treno si può arrivare al confine con la Georgia, che non chiede visti d’ingresso ai sauditi e dove la vita costa poco. Dalla Georgia si può fare richiesta d’asilo in un paese occidentale.

     

Un’altra meta è l’Australia, perché il modulo per il visto si può compilare online – difficile andare a fare le pratiche in ambasciata con un maschio che ti segue ovunque – e una volta lì si può chiedere lo status di rifugiata.

  

Nel marzo 2018 la figlia dell’emiro di Dubai, Sheikha Latifa bin Mohammed al Maktoum, ha registrato un video lungo 40 minuti che poi è finito su YouTube nel quale spiega che se sei una donna la tua vita è considerata un oggetto di proprietà altrui, rivela che sta per tentare la fuga e che il filmato è una testimonianza nel caso sia uccisa. Latifa non era mai uscita da Dubai negli ultimi diciotto anni, era accompagnata in giro da una guardia del corpo che doveva sorvegliare ogni suo movimento, non poteva andare a casa dei suoi amici e non poteva invitare loro a palazzo. Quando aveva quattordici anni una sua sorella più grande, Shamsa, la sola con cui aveva un rapporto, tentò la fuga dalla villa dell’emiro a Londra, fu rintracciata dalle guardie e caricata a forza su un’auto, Scotland Yard aprì un’inchiesta per rapimento ma fu costretta a chiuderla. Oggi Latifa dice che Shamsa fa una vita da reclusa imbottita di psicofarmaci per tenerla buona. “Io voglio andare in America, non m’importa se dovrò cucinare hamburger per mantenermi”.

  

Latifa aveva un circolo di amici occidentali, ha trovato contatti per organizzare la fuga, è scappata da palazzo, è andata con un’amica in macchina al confine dell’Oman, da lì con un gommone ha raggiunto uno yacht e con quello avrebbe dovuto arrivare fino alla costa dell’India, dove avrebbe chiesto asilo politico all’America. Un francese che dichiara di avere un passato nei servizi segreti aveva organizzato il viaggio. Ma l’apparato di sicurezza dell’emiro ha trovato lo yacht, lo ha abbordato e ha preso la principessa. L’emiro ha denunciato “un tentativo di rapimento”, Latifa non appare più in pubblico da allora, tranne che in una foto a pranzo con la ex presidentessa dell’Irlanda, Mary Robinson, tanto per far vedere che è viva e dare una parvenza di normalità.

  

Altre volte va meglio. A dicembre Rahaf Mohammed al Qunun è riuscita a volare fino a Bangkok, in Thailandia, dopo un piano d’evasione preparato per mesi. Da lì doveva volare verso l’Australia, ma ha fatto un errore. Invece che stare nello scalo ha tentato di assaggiare un anticipo di libertà, ha voluto uscire dall’aeroporto per andare in strada. I poliziotti thailandesi l’hanno fermata perché c’era una segnalazione della famiglia. L’hanno fermata, padre e fratello sono partiti dall’Arabia Saudita per andare a riprendersela. Si è salvata perché con il telefonino ha cominciato a twittare video per spiegare che la tenevano chiusa in casa, che la maltrattavano, che per punizione dopo che si era tagliata i capelli senza autorizzazione non era potuta uscire per mesi. L’autocampagna di salvataggio è decollata, i video di lei senza velo che chiede aiuto sono diventati virali, è intervenuta l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, il Canada ha accettato di prenderla. “Perché non le avete tolto il telefonino?”, ha chiesto alla polizia thailandese un emissario inviperito del governo saudita che era stato mandato a Bangkok per portarla indietro. Rahaf ha amici australiani, parla inglese, sa come usare Twitter e il telefonino. Senza questi fattori, molte donne non saprebbero nemmeno come provare a replicare la stessa impresa. Un’altra donna che aveva tentato di salvarsi nello stesso modo all’aeroporto di Manila nell’aprile 2017 mentre andava a Sydney, Dina Ali Lasloom, non era riuscita ad attirare l’attenzione del mondo. “Mi hanno preso il passaporto e mi hanno tenuta chiusa per tredici ore… se la mia famiglia arriva qui mi ammazza. Se torno in Arabia Saudita sono morta. Per favore aiutatemi”. Arrivarono due zii, la imbarcarono mentre scalciava su un aereo per Gedda.

   

Il 24 ottobre la polizia ha trovato due sorelle saudite, Rotana e Tala Farea, di 22 e 16 anni, morte annegate nel fiume Hudson. Si erano legate assieme con del nastro adesivo, uno che correva lungo il fiume le aveva viste cinque ore prima all’alba mentre pregavano sulla riva. Le due erano scappate dalla villa del padre in Virginia, avevano denunciato di essere vittime di abusi in famiglia e avevano chiesto asilo negli Stati Uniti. Secondo gli investigatori, avevano detto agli amici che piuttosto che tornare in Arabia Saudita si sarebbero ammazzate.

  

Nel 2016 una attivista per i diritti civili, Mariam al Otaibi, è stata arrestata e imprigionata per cento giorni dentro la sezione femminile del carcere di al Malaz, nella capitale Riad, perché il padre l’aveva denunciata alla polizia. Mariam aveva abbandonato la casa senza permesso e si era spostata dalla sua provincia ultraconservatrice, al Qassam, nella capitale, dove alcuni sostenitori della causa l’avevano aiutata ad affittare un appartamento e a trovare un lavoro.

  

Il governo saudita tenta di apparire riformatore e illuminato e l’anno scorso ha concesso alle donne di guidare dopo essersi intestato una campagna che in realtà apparteneva ad alcune dissidenti. Ma si tratta di una campagna di facciata: non soltanto perché ci sono casi orrendi di brutalità di stato, come l’assassinio a Istanbul del giornalista Jamal Khashoggi e come l’arresto di molte attiviste, che denunciano di essere state torturate, ma anche perché ammette che il sistema della guardiania è troppo radicato nella società e non può essere superato. Un punto curioso è che si tratta di un’istituzione islamica medievale codificata però in una app per telefonini prodotta dal governo nel 2015, che si chiama “Absher”, in arabo sissignore, ed è scaricabile sia nella versione Apple sia in quella Google. Grazie ad Absher i padri e i fratelli possono tenere un occhio su figlie e sorelle in molti settori della loro vita. Per esempio, la app avverte se una donna tenta di passare i controlli a un aeroporto. Non solo, ma è possibile segnare come “non autorizzati” i viaggi aerei di una donna. L’anno scorso una diciottenne ha preso il telefono del padre, ha aperto la app, si è segnata come “autorizzata” ed è volata via. Apple e Google dopo un articolo del New York Times di due giorni fa hanno detto che indagheranno. Se la app è usata per rafforzare la repressione, sarà ritirata.

    

Per ora a dispetto del fatto che l’incremento delle fughe è molto rapido i numeri sono ancora piccoli. Questo genere di iniziative richiede risorse non comuni. Ma è chiarissimo, almeno agli occhi dei governanti dei regni del Golfo, che questo movimento di liberazione mina le basi stesse delle loro nazioni. Se le donne scappano, se si sottraggono allo schema di sudditanza che era previsto per loro in eterno, viene meno la tenuta delle società. Puoi tenere prigioniero un settore intero della popolazione finché hai a che fare con centinaia di casi di fuga ogni anno, ma che succede se i casi diventano centinaia al mese? L’Arabia Saudita e gli Emirati contigui hanno scommesso tutto su un piano paradossale, vogliono assomigliare sempre di più all’occidente – con campus universitari, grandi centri commerciali, aeroporti internazionali e manifestazioni sportive (vedi il Campionato del mondo di calcio in Qatar nel 2022) – ma al tempo stesso pretendono che le donne ignorino tutto questo, fingano di non vedere che sui canali nazionali le presentatrici non portano il velo e loro invece sono costrette a portarlo, fingano di non vedere le turiste straniere che camminano accanto a loro nei negozi di lusso e restino remissive in un passato mentale che non ammette cambiamenti. Non può funzionare e infatti non sta funzionando. Che poi è la ragione per cui i talebani rifiutano in blocco lo stile di vita occidentale: se sei passatista, lo devi essere in modo integrale, altrimenti il tuo modello è intenibile. E se le donne arabe si dileguano perché non vogliono passare il resto della vita intrappolate in uno stile di vita che sembra loro sempre più assurdo e repressivo, le società del Golfo come pensano di andare avanti?

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)