Joaquín Guzmán Loera, conosciuto come El Chapo (LaPresse)

Il processo del Chapo è stato una telenovela dell'orrore

Eugenio Cau

Il narcotrafficante messicano è stato condannato all'unanimità per 10 capi d'accusa. Storia di un processo pirotecnico e terribile

Milano. Per molti anni, più di due decenni a essere precisi, Joaquín Guzmán Loera, conosciuto come El Chapo, il più potente narcotrafficante del mondo, è stato una figura mitologica, un criminale feroce con cui soltanto i grandi jihadisti islamici come Abu Bakr al Baghdadi, il capo dell’Isis, potevano competere. Miliardario finito nella celebre lista di Forbes; imprenditore geniale capace di muovere droga attraverso una supply chain intercontinentale; signore della guerra che per anni ha messo a ferro e fuoco il Messico, in uno scontro strada per strada con l’esercito che ha provocato – sono stime, probabilmente ottimistiche – centomila morti; fuggiasco capace di scappare per ben due volte dalle carceri di massima sicurezza del suo paese, in maniere così oscure che nessuno sa davvero se è fuggito di nascosto (versione ufficiale della prima evasione: dentro a un carrello per la biancheria) oppure se è uscito dalla porta principale, ossequiato dal direttore del penitenziario come un gran signore; eroe popolare per migliaia di messicani e latinoamericani diseredati, il Chapo è un mito criminale e un’icona pop. Tutti sanno che la prossima stagione di “Narcos”, la famosissima serie di Netflix, sarà interamente dedicata a lui.

 

  

Quando nel 2016 i messicani lo arrestarono per la terza volta, decisero di mangiarsi l’orgoglio nazionale e di estradarlo subito in America, senza processarlo per i crimini infiniti che aveva commesso in patria: era l’unico modo per evitare che scappasse ancora. Il processo si è aperto tre mesi fa, a Brooklyn, e tutti si aspettavano uno spettacolo orrifico e affascinante. Il Chapo non li ha delusi.

 

I giornalisti messicani e gli esperti di narcotraffico latinoamericano hanno osservato con sconcerto e un po’ di divertimento il raccapriccio dei loro colleghi statunitensi, che in tre mesi hanno accumulato titoli su titoli scandalizzati. Davvero il Chapo uccideva i suoi nemici con pasti avvelenati? Davvero i nostri treni merci, i nostri tombini, perfino i nostri jalapeños erano stati riempiti di droga dal cartello di Sinaloa? Davvero il Chapo drogava e stuprava ragazzine minorenni come passatempo abituale e diceva che per lui era come prendere le “vitamine”? Davvero la sua rete di politici corrotti era così estesa da arrivare fino alla presidenza del Messico? (Quest’ultima è un’accusa gravissima pronunciata da un testimone, ovviamente non ha fondamento e non ci sono prove).

 

Durante i tre mesi di un processo pirotecnico e terrificante il Chapo ha dato spettacolo e ha partecipato a quasi tutte le udienze, con sua moglie Emma Coronel sempre presente. Si sono visti attori famosi (compreso quello che interpreta il Chapo stesso su Netflix, per “studiare”), vecchie amanti che ancora dicono di adorare il gran narcos, e criminali con decine di vite sulla coscienza sono stati ascoltati come testimoni. Durante un’udienza, il Chapo e sua moglie Emma hanno indossato, lui tra gli imputati e lei tra il pubblico, lo stesso completo elegante rosso.

 

Ieri la giuria del tribunale di Brooklyn ha giudicato il Chapo colpevole di tutti i dieci reati di cui è stato accusato. Probabilmente sarà condannato all’ergastolo.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.