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Riforme timide e vecchie paure hanno rimesso in crisi l'Argentina

Maurizio Stefanini

C’è il problema congiunturale di una siccità che ha gravemente danneggiato i raccolti, ma c’è anche il dato strutturale di un’inflazione che continua a essere la seconda della regione

Roma. Per Mauricio Macri, presidente dell’Argentina, è il momento della verità. Appena un mese fa, i dati economici erano sembrati confermare la correttezza della sua strategia di fuoriuscita dal populismo attraverso un “cambio gradualista”. Ma giovedì scorso una “Corrida Cambiaria” ha fatto crollare il peso rispetto al dollaro del 9 per cento in un giorno, alzando il rendimenti dei bond dal 27,25 al 40 per cento, riducendo dal 30 al 10 per cento la quota di riserve che le banche possono detenere in valuta straniera, buttando sul mercato 4,8 miliardi di dollari. Il governo e la Banca Centrale avevano parato il colpo, e venerdì il cambio era tornato a 22,25. “Il paese è preparato a questi choc”, aveva provato a rassicurare il governo.

 

Ma tra lunedì e martedì la Corrida è ricominciata. Non solo in Argentina. “Sono saliti i tassi di interesse negli Stati Uniti e le monete emergenti si sono deprezzate”, aveva ricordato in una conferenza stampa il ministro delle Finanze Luis Caputo, apposta per ribadire che la colpa non è del governo. Il real brasiliano è caduto dello 0,8 per cento, il peso messicano dell’1,04, il peso cileno dell’1,3, il peso colombiano dell’1,4. Ma il peso argentino è arrivato a un -5,4. C’è il problema congiunturale di una siccità che ha gravemente danneggiato i raccolti: una perdita da 4,6 miliardi di dollari che rappresenta lo 0,7 per cento del pil. Ma c’è anche il dato strutturale di un’inflazione che continua a essere la seconda della regione – pur a distanza stratosferica dalle follie venezuelane. “Macri ha ereditato dai Kirchner un deficit fiscale che era il 7 per cento del pil, e due anni e mezzo dopo continua a essere il 7 per cento”, spiega al Foglio Diego Dillenberger: un anchor-man e commentatore politico argentino famoso per quel programma “La Hora de Maquiavelo” che è uno dei più seguiti alla tv argentina. “E non siete voi in Europa a dire che se si sfonda il 3 per cento si va in crisi?”.

 

In più c’è il problema psicologico della sfiducia che i mercati internazionali continuano ad avere verso l’Argentina, dopo i default degli anni scorsi. Appunto ristabilire i rapporti è stato uno dei primi obiettivi di Macri, e effettivamente negli ultimi due anni i capitali sono affluiti in quantità. “Sono almeno 70 miliardi di dollari di debiti”, è la stima che Dillenberger fa con il Foglio. “Ma tutti gli esperti avevano avvertito Macri che la stagione dei tassi favorevoli non sarebbe durata. O l’aggiustamento lo fa il governo o lo fa il mercato, e in condizioni molto più brutali.”.

 

Da marzo, 7 miliardi di dollari sono stati bruciati dalla Banca Centrale argentina nel tentativo di bloccare la “Corrida”: un decimo delle sue riserve di valuta. A quel punto il presidente si è infine rassegnato a fare l’annuncio più amaro. “Qualche minuto fa ho parlato con Christine Lagarde, la direttrice del Fmi, e ci ha confermato che inizieremo oggi stesso a lavorare per un accordo”, ha detto in tv. E’ un prestito di 30 miliardi, che effettivamente dal punto di vista delle condizioni è più conveniente, rispetto alle altre due alternative possibili: continuare a ricorrere al mercato a tassi sempre più alti, come ha fatto finora Macri; o costringere i fondi pensione pubblici a prestare al governo, secondo la ricetta infazionista dei Kirchner.

 

Dopo che Macri ha vinto con facilità le elezioni di metà mandato, ora il 54 per cento degli argentini esprime disapprovazione per la sua gestione, e addirittura il 75 per cento è contrario per principio a ogni contatto col Fmi: per gli argentini, memori delle esperienze durissime degli anni 90, Il Fondo monetario è sinonimo di commissariamento.

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