Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Il maquillage del potere

Stefano Cingolani

La caduta di Vincent Bolloré, detto l’Africano, non cambia gli equilibri tra i potenti di Francia. Macron li sostiene ma, a un anno dalla sua elezione, deve battere l’illusione del tutto e subito

Prima Nicolas Sarkozy poi il suo amico Vincent Bolloré; per entrambi galeotta fu l’Africa, entrambi vengono messi sotto accusa a distanza di un mese dalla magistratura di Nanterre, specializzata in corruzione e reati finanziari. Simul stabunt, simula cadent? Siamo di fronte a un rimescolamento nei poteri politici ed economici, sotto la spallata del potere giudiziario o forse è tutta opera di un giudice istruttore d’assalto come Serge Tournaire, che ha già messo sotto torchio molti potenti, gaullisti, socialisti o liberali. Anche lui sulle orme della star degli anni 90, quella Eva Joly che incastrò la Elf, i signori del petrolio e i loro protettori politici, per poi candidarsi alle elezioni presidenziali con i verdi di Europa ecologia. Che profumo d’Italia ci arriva da oltralpe. I francesi, del resto, non sono italiani con la faccia triste, come recita un noto detto popolare?

 

L’inchiesta va avanti dal 2010. La mannaia giudiziaria sul patron di Vivendi cade dopo che Sarkozy è finito nelle grinfie dei magistrati

Nessun complotto né manovre oscure, sia chiaro, non esiste alcun rapporto tra equilibri politici e inchieste giudiziarie, tanto meno potentati economici: la giustizia fa il suo corso anche in Francia dove l’autonomia dal potere esecutivo è meno ampia che in Italia, un corso lento che non sempre s’avvicina alla verità. Premessa lunga e pleonastica se non fosse perché quel che accade a Vincent Bolloré ha evidenti ricadute sugli equilibri economici e persino istituzionali, in Francia come in Italia.

 

Riassumiamo i fatti. L’inchiesta va avanti da anni, risale esattamente al 2010. Molto probabilmente Bolloré aveva già sentore di quel che gli stava rovinando addosso quando lo scorso 19 aprile, chiudendo l’assemblea di Vivendi, la società di media che in Italia controlla Tim, ha annunciato tra la sorpresa generale che dal prossimo anno passerà la presidenza al figlio Yannick. Tutte le operazioni africane, delle quali la logistica rappresenta gran parte, sono già gestite dal terzogenito Cyrille, seguendo le regole fissate oltre un secolo fa dalla famiglia di uomini d’affari radicati in Bretagna (la figlia Marie è nel consiglio di amministrazione di Mediobanca). L’altra coincidenza, per così dire, è che la mannaia giudiziaria cade dopo che Nicolas Sarkozy, suo vero protettore negli affari africani, è finito nelle grinfie dei magistrati accusato di aver accumulato favori e tangenti in Libia da parte niente meno che di Gheddafi.

 

La pista Bolloré ci conduce al porto di Conakry, capitale della Guinea. Lunedì 8 marzo 2011 la televisione pubblica del paese annuncia che la concessione affidata a Getma, società del gruppo portuale francese Necontrans, è stata revocata. La sera stessa nella sede della compagnia arrivano i militari armati di tutto punto. Due giorni dopo, un decreto presidenziale fissa il passaggio del terminal al gruppo Bolloré. Il presidente della Guinea Alpha Condé sostiene che è tutto regolare, il finanziere francese aveva le migliori credenziali. Ma poi si lascia andare: “Vincent è un amico e io aiuto gli amici. Che male c’è?”. Condé ,che ha trascorso molti anni a Parigi prima di tornare vincitore nel suo paese nel 2010, ha trovato nel miliardario bretone un sostegno di lunga data. Jacques Dupuydauby, 69 anni, uomo d’affari franco-spagnolo, già socio di Bolloré, al sito di inchieste Mediapart ha raccontato le pressioni di Sarkozy in Togo, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Congo a favore di Bolloré, senza dimenticare la Libia (il porto di Misurata). L’accusa è davvero pesante: “Quando si installa da qualche parte, prende possesso di tutto e usa il presidente francese come suo commesso viaggiatore”. In questo caso si riferiva chiaramente a Sarkozy. Secondo le indagini, la corruzione in Guinea e in Togo (anche qui si fa il nome del presidente Faure Gnassingbé) sarebbe passata attraverso Havas, la concessionaria pubblicitaria che fa capo a Vivendi e anche per questo ieri il titolo del gruppo è crollato dell’8 per cento. L’uomo chiave è Jean-Philippe Dorent, responsabile internazionale di Havas, il quale avrebbe utilizzato fondi neri creati con false fatture.

 

L’Africa, dove Bolloré è il re della logistica, rappresenta il “cuore nero” dell’intero sistema, il vero polmone produttivo che ha consentito scorribande finanziarie non tutte di successo. All’assemblea di Vivendi il 19 aprile scorso, molti azionisti hanno recriminato pesantemente per le perdite subite dalle operazioni italiane, per sentirsi rispondere che “i conti si fanno solo alla fine della fiera” e lui in Italia vuole restare perché guarda ai suoi investimenti con un’ottica a lungo termine. Ma anche l’Africa, almeno da un paio d’anni, sta appesantendo i conti: il crollo dei prezzi del greggio, delle materie

L’Africa, dove Bolloré è il re della logistica, è il polmone produttivo che ha consentito scorribande finanziarie non tutte di successo

prime e dei minerali ha provocato perdite consistenti e anche la logistica, i trasporti marittimi e via terra, la distribuzione petrolifera, ne sono appesantiti. Insomma, VB (VèBé) come lo chiamano gli amici, non è più “il piccolo re del cash flow”, l’appellativo che si era meritato vent’anni fa alla Borsa di Parigi grazie alla sua capacità di mettere mano con fulminea rapidità a grandi pacchi di contanti. Bolloré è maestro nella tattica del cavallo di Troia che ha sperimentato al meglio con il conte Edouard de Ribes, nobiltà napoleonica, il quale guidava, insieme al conte Jean de Beaumont, ex olimpionico di tiro, il gruppo Rivaud, potenza finanziaria coloniale proprietaria di piantagioni in Asia e Africa per milioni di ettari e filiali in tutti i paradisi fiscali. Nel 1987 il fascinoso Vincent viene invitato a entrare per difendere il gruppo dai molti predatori. Nove anni dopo, mentre i due vecchi aristocratici inciampano nella giustizia fiscale, s’impadronisce del gruppo grazie al quale compie il gran salto. Le privatizzazioni imposte dal Fondo monetario internazionale ai paesi oberati dai debiti sono l’occasione per estendere l’originario insediamento africano. In particolare VB s’aggiudica porti e ferrovie, crea compagnie di trasporti su quattro ruote. Le sue navi container solcano i sette mari. Su un fatturato di dieci miliardi di euro, la logistica e i trasporti petroliferi fanno ancor oggi 8,2 miliardi.

 

La campagna d’Italia era cominciata sotto gli auspici di Antoine Bernheim, grande socio di Lazard, che aveva aiutato il giovane Bolloré a riprendersi dai Rothschild la cartiera di famiglia fondata nel 1822 per costruirci attorno un vero impero franco-africano. Un legame inossidabile finché il 24 aprile 2010 Bolloré non volta le spalle al suo mentore, votando per la decadenza di Bernheim da presidente delle Assicurazioni Generali. Il vecchio Toni non glielo perdonerà mai: “L’ho accompagnato lungo tutta la sua carriera poi mi ha tradito”, dichiara nel 2011, un anno prima di morire. Un amico non è per sempre, lo ripeteva sempre a Vincent papà Michel. In realtà, di amici ne ha perduti molti in particolare in Italia. Il primo è Silvio Berlusconi. Prima ha stretto un accordo per far rilevare Mediaset Premium da Vivendi e fonderla con Canal Plus e sembrava la premessa di una grande alleanza, poi l’intesa viene fatta saltare unilateralmente e il gruppo francese scala Mediaset fino a possedere il 29,9 per cento. Nel frattempo, entrato in Telecom Italia ne diventa l’azionista di controllo mettendo al vertice i suoi uomini. E’ la solita tattica, sperimentata più volte in Francia (nel gruppo Rivaud come abbiamo visto, con Bouygues, con Lazard) e in Italia a cominciare dalla stessa Mediobanca. “Si è comportato come Attila”, ha sentenziato Marina Berlusconi. Di lui Matteo Renzi non si è mai fidato nonostante i tentativi di trovare un modus vivendi. Non si è fidata nemmeno la magistratura, visto che è indagato per aggiotaggio ed è stato messo sotto tiro dalle autorità di controllo delle telecomunicazioni e dall’Antitrust.

 

E’ presto per parlare di stella cadente, ma emerge già l’impatto reputazionale dell’ultima inchiesta giudiziaria. Il Sole 24 Ore ha scritto che in molti dentro Mediobanca si chiedono se non sia arrivato il momento di rivedere l’assetto che vede Bolloré secondo azionista con poco più dell’8 per cento, subito dopo la banca Unicredit. Mentre nelle Assicurazioni Generali, delle quali Mediobanca è azionista numero uno con oltre il 12 per cento mentre Bolloré possiede direttamente solo un minimo 0,27 per cento, è in corso un riassestamento tra i soci: Francesco Gaetano Caltagirone e il gruppo Benetton hanno aumentato le loro quote e si parla di un tentativo per convincere Leonardo del Vecchio, il fondatore di Luxottica ora fusa con il gruppo francese Essilor, a diventare la guida di un nocciolo duro formato da capitale italiano. Dunque, è chiaro che le sfortune di Bolloré possono provocare una vera e propria reazione a catena. E in Francia?

 

Macron è il presidente dei poteri forti, dicono Le Pen e Mélenchon. Però con la riforma scolastica favorisce i ragazzi delle banlieue

E’ in corso da tempo un cambiamento importante ai vertici di un capitalismo che ha abbracciato in modo sempre più esteso e convinto la globalizzazione. Due esempi vengono dall’industria dell’auto, con l’ingresso dei cinesi nella Peugeot (con lo stato a fare da guardiano e tutore) e con la fusione tra Renault e Nissan che porta il gruppo ai vertici mondiali. Il colbertismo, l’intervento attivo e spesso invasivo dello stato nell’economia privata, resta, ma come una cassetta degli attrezzi da usare a discrezione quando sono in gioco interessi nazionali forti (è il caso ad esempio dei cantieri navali di St-Nazaire passati prima ai coreani poi a Fincantieri). I vecchi equilibri erano basati su una triade inattaccabile: gli enormi patrimoni immobiliari in mano alle grandi famiglie, gestiti dall’alta finanza; le banche pigliatutto e in mezzo lo stato. Oggi la haute finance è meno dominante, le banche si sono sempre più americanizzate, la compagnia di assicurazioni Axa ha appena speso 12,4 miliardi per comprare XL, una grande società con sede alle Bermuda, mentre lo statalismo appare come un residuo della storia. Bolloré con i suoi dieci miliardi di euro resta un pezzo forte del sistema, tuttavia è parte di quella triade, un esponente importante del vecchio modello. Lo sono anche Bernard Arnault e François Pinault, gli eterni duellanti del lusso, tuttavia operano nel mondo del lusso e dell’effimero sul quale la Francia punta moltissimo, ma che resta lontano da un impatto diretto sulla politica a differenza dei media, dell’informazione o degli affari in quella che non a caso viene chiamata Françafrique.

 

E come si colloca Macron in questa mutazione della quale è nello stesso tempo un frutto e un seme? Quando era solo candidato alle presidenziali del 2017 con il movimento politico da lui appena fondato, En Marche!, smentiva al Foglio qualsiasi “strategia offensiva del capitalismo francese in Italia. Sono stato ministro dell’Economia e non ho mai discusso con gli attori francesi presenti in Italia a questo proposito”. Tuttavia, vedeva la possibile fusione telecomunicazioni-media in un’ottica di cooperazione e rafforzamento tra Francia e Italia, “per avere un’offerta mediatica europea e mediterranea”. Era il periodo in cui si recava in visita agli impianti dove Bolloré costruiva l’auto elettrica, la Bluecar, progetto poi finito in un cul de sac, ed esaltava l’audacia imprenditoriale del miliardario bretone il cui primogenito, Yannick, si faceva vedere in prima fila alle sue adunate elettorali. Il presidente rappresenta l’orizzonte generazionale e politico-culturale dove si muovono i figli di Bolloré, che ha nuotato come un pesce nel brodo di coltura del gaullismo tecnocratico, quello inaugurato negli anni 70 da Georges Pompidou (del quale era buon amico papà Michel), già banchiere dei Rothschild dove si sono fatti le ossa Bolloré e Macron; tre generazioni, tre leader, un solo laboratorio del potere.

 

La campagna d’Italia di VB era cominciata sotto gli auspici di Antoine Bernheim, a cui poi ha voltato le spalle. Come a Berlusconi

A un anno esatto dalla sua elezione, l’inquilino dell’Eliseo è atteso alla prova della verità. E’ tornato da un viaggio trionfale a Washington dove ha rinsaldato il rapporto con Donald Trump. Restano le divergenze sui contenuti (dazi, globalizzazione, accordo con l’Iran sul nucleare), ma il presidente americano ormai lo considera l’interlocutore principale in Europa, cambiando una tradizione che dal secondo dopoguerra in poi privilegiava la Germania. “Si sono incontrati Giove e Mercurio”, ha commentato l’Economist. Al Congresso ha ottenuto applausi e standing ovation di poco inferiori a quelle tributate a Benjamin Netanyahu, ma i gesti e le parole non bastano, scrive Le Monde, adesso contano i fatti ed è quello che chiedono gli elettori divisi e anche un po’ confusi. Il presidente ha messo in campo riforme a raffica, rompendo tabù e intaccando corporazioni e diritti acquisiti (sul mercato del lavoro come sulle pensioni). Ha provocato scioperi e proteste in un paese che detiene il record in Europa di “manif”, prima ancora dell’Italia. Ma spesso sono davvero reazioni di retroguardia, come quella dei ferrovieri contro l’arrivo di operatori privati (si pensi a Italo che ha migliorato i servizi e aumentato i posti di lavoro). Non solo. Il quotidiano Les Echos ha pubblicato un’inchiesta, condotta insieme a Radio Classique, che smentisce una certa immagine che i media italiani hanno diffuso. Non solo Macron ha fidelizzato i propri elettori, ma ha conquistato buona parte di quelli dei suoi rivali nel centrodestra e a sinistra. Se si votasse oggi, straccerebbe tutti fin dal primo turno, migliorando i risultati di un anno fa. E tuttavia quello stesso popolo che gli rinnova la fiducia gli chiede risultati concreti a cominciare dall’economia.

 

Con l’abolizione della inutile e demagogica imposta sulle grandi fortune e la flat tax sul capitale per favorire gli investimenti, sembra il presidente dei poteri forti, come sostengono in parallelo Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon; la riforma scolastica per favorire i ragazzi delle banlieue, invece, taglia l’erba sotto i piedi della sinistra. Insomma, Macron continua a spiazzare tutti non solo con la retorica, ma con la pioggia di cambiamenti, ancor più di uno al mese come aveva promesso Renzi. La sua scelta di praticare una “politica dell’offerta” simile in questo a quella del Partito democratico, lo espone alla freccia del tempo, perché ci vorranno anni prima di vederne i frutti e gli elettori francesi come quelli italiani non hanno tempo e non ne vogliono avere. Così, la tirannia dello sguardo corto si aggiunge alla tirannia dello status quo e minaccia i riformisti. Anche per questo, per battere l’illusione del tutto e subito, Macron ha bisogno di alleati. Sa che il sistema è destinato a cambiare, tuttavia abbatterne i pilastri per via giudiziaria è un boomerang che finisce per aiutare soltanto i conservatori. Italia docet.