Barcellona durante lo sciopero generale contro l'arresto dei leader indipendentisti (foto LaPresse)

Che tristezza questa fiesta secessionista in Catalogna

Daniele Raineri

Dal 90 per cento al 47,5, la differenza tra la volontà popolare immaginaria e quella che esce da un conteggio vero

Roma. Ci eravamo lasciati nei primi giorni di ottobre quando gli organizzatori del “referendum secessionista” catalano dicevano che “il novanta per cento dei votanti ha detto sì all’indipendenza”. Ci ritroviamo due mesi e mezzo dopo con una conta ufficiale dei voti in una vera elezione tenuta in modo regolare e tutti e tre i partiti secessionisti messi assieme fanno il 47,5 per cento dei voti. Il partito che è arrivato primo è quello degli unionisti, quindi contro la secessione, che ha preso il 25,4 per cento dei voti. Questa volta quasi un milione e novecentomila catalani hanno votato contro: al referendum considerato illegale dal governo spagnolo erano stati soltanto 176 mila.

 

E’ molto chiaro che quando parliamo di Catalogna ci troviamo davanti a un difetto di rappresentanza di una fetta di elettorato che non vuole abbandonare la Spagna, ma non soltanto. Questa doppia conta che ci ha dato risultati diversi è un argomento formidabile contro un trucchetto retorico molto usato dai partiti populisti un po’ ovunque, anche in Italia, quello di intestarsi la Volontà del Popolo, che qui scriviamo maiuscolo perché si tratta di un’idea, nemmeno possiamo sapere se esista davvero. “Il popolo dice”, “il popolo vuole”, e – guarda caso – ha scelto proprio i partiti populisti per far sapere la sua volontà. Così, dopo che i secessionisti catalani hanno proiettato davanti ai nostri occhi l’immagine di una Volontà Popolare Unica e Irresistibile, dopo che ci hanno convinto dell’immagine di un popolo compatto che rivendica un suo diritto all’autodeterminazione, dopo i cortei interminabili, dopo che ci siamo commossi davanti alle piazze piene (molto più delle urne) e siamo inorriditi davanti alle manganellate della Guardia Civil, scopriamo che la secessione non arriva alla metà più uno degli elettori. Non solo: se guardiamo i risultati delle elezioni precedenti e andiamo a ritroso vediamo che rispetto agli anni Novanta quei partiti sono in flessione, stanno raccogliendo meno voti – e infatti il risultato di questa elezione pur in circostanze eccezionali è stato in pratica un bis dell’elezione del 2015.

 

Certo, i secessionisti hanno assieme settanta seggi, quindi due in più dei sessantotto che servono per avere la maggioranza al Parlamento locale di Barcellona e potranno prendere decisioni in materia di nettezza urbana, viabilità e turismo. Ma se la decisione da prendere è la secessione dalla Spagna, e quindi anche dall’Unione europea (inevitabile), dall’euro (conseguenza diretta dell’uscita dall’Unione europea) e dalla Nato (chissà se ci hanno pensato), allora non servirebbe una maggioranza qualificata? La domanda è molto ipotetica perché non si arriverà a quella discussione, ma serve come monito per tutte le volte in cui il popolo ci chiede di fare questo e quell’altro. 

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)