L'ambasciatore americano Nikki Haley in conferenza stampa davanti ai resti di un missile Qiam

Missili non identificati, milizie compiacenti: come funziona l'espansione dell'Iran

Daniele Raineri

Nel medio oriente post Stato islamico, gli americani assistono alle aggressioni di Teheran nei confronti dell'Arabia Saudita, una nazione alleata. Ma non hanno ancora le prove per dimostrare il ruolo degli iraniani

Si trattava di un missile iraniano Qiam o di un missile di fabbricazione sovietica Scud-C? Il dilemma più recente che viene dal medio oriente è questo, dopo che due giorni fa le milizie houthi – che non sono più “ribelli” dato che controllano la capitale dello Yemen da tre anni – hanno sparato un missile contro il palazzo reale saudita di al Yamama, dove il re riceve i capi di stato stranieri e almeno una volta alla settimana riunisce il governo. Il 4 dicembre avevano sparato un altro missile contro il reattore nucleare di Abu Dhabi negli Emirati arabi uniti e un mese prima, il 4 novembre, un altro contro l’aeroporto internazionale re Khalid della capitale saudita. Tutti e tre i lanci sono falliti, quelli contro i sauditi sono stati intercettati e distrutti in volo con gran fracasso e quello verso gli Emirati è caduto nel deserto.

 

Il dilemma è: sono missili iraniani Qiam arrivati di contrabbando, ordigni da 16 metri di lunghezza e 6 tonnellate di peso (quando sono pronti per l’uso, quindi già carichi di combustibile per il volo)? E quindi si tratta di un altro capitolo dell’espansione dell’Iran in medio oriente, fatta con un metodo già visto altrove: allearsi con le milizie locali e trasformarle in un esercito? E anche: come hanno fatto a trasportarli in Yemen senza che nessuno se ne accorgesse? Queste domande sono interessanti, considerato che le prossime crisi in quell’area coinvolgeranno milizie che sono tutte alleate dell’Iran – da Hezbollah in Siria e Libano a Hamas nella Striscia di Gaza – e che saranno tutte guerre missilistiche. Ma al momento gli interrogativi sono tutti coperti dal racconto più ampio della guerra in Yemen, dove la coalizione guidata dai sauditi ha fatto più di quindicimila raid aerei in mille giorni e dove il blocco a singhiozzo dei valichi di terra e dei porti deciso da Riad aggrava la mancanza di cibo per milioni di civili. In questo contesto di disastro umanitario, il fatto che gli Houthi – una milizia di montanari senza un arsenale da guerra – riescano a colpire sempre più lontano con missili non meglio identificati oppure che siano riusciti a localizzare e a uccidere l’ex presidente Abdullah Saleh meno di ventiquattr’ore dopo la fine dell’alleanza con lui non attira attenzione. L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Nikki Haley, ha provato sabato scorso a montare un caso contro la presenza militare dell’Iran in Yemen da una base militare a sud di Washington, dove ha fatto vedere i resti di alcune armi iraniane usate in territorio yemenita – “come reagiremmo se qualcuno sparasse un missile contro l’aeroporto di Washington o di New York?” – ma la conferenza stampa è stata giudicata non convincente perché non è possibile stabilire con esattezza quando quelle armi sono state usate. Michael Elleman, un esperto di missili dell’International Institute for Strategic Studies, dice che l’ordigno mostrato da Haley è di alluminio, non di acciaio, e grazie a questa informazione si può dire che si tratta di un missile iraniano Qiam. Ma la gittata del Qiam è di 700 chilometri, quello sparato contro Riad è arrivato a mille, di che animale nuovo si trattava? Inoltre il New York Times – che lo chiama direttamente Qiam, senza tanti dubbi – intervista un altro esperto, Jeffrey Lewis, che nota che quel missile dietro la Haley non è danneggiato come se fosse stato distrutto in volo e quindi non è quello lanciato il 4 novembre contro l’aeroporto di Riad.

 

Ricapitolando: l’Amministrazione Trump vede le Guardie della rivoluzione iraniana bombardare con missili e per interposta milizia la capitale di una nazione alleata, ma non riesce ancora a portare prove decisive, il tutto sullo sfondo di una catastrofe umanitaria. Gli israeliani osservano la situazione come se fosse un anticipo di un possibile conflitto con Hezbollah, con la differenza che la distanza tra Tel Aviv e il sud della Siria dominato dagli iraniani è di centocinquanta chilometri.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)