La spina nel fianco di Tokyo

Giulia Pompili

Siamo andati a Okinawa a vedere l’area più contesa tra Giappone, America e Cina

Quando atterriamo a Ishigaki, il tifone Saola è quasi arrivato sulle isole dell’arcipelago delle isole Riukyu, in quella parte di mare che fa da confine tra l’oceano Pacifico e il Mar cinese orientale. Sul taxi verso il centro abitato dell’isola, il tassista ci spiega sorridendo: “Quando è in arrivo il tifone, si parla solo del tifone”. E in effetti la pioggia si sta facendo sempre più fitta, anche se il vento non è ancora forte: “Ma qui più che il vento sono i terremoti”. Ma come, i terremoti qui? “Sì”, dice con la leggerezza di chi ha spiegato la stessa storia spesso, agli stranieri: “Quando ci sono le tempeste di fulmini l’energia scaricata a terra è così forte che provoca una specie di terremoto. Vedi sulle case? I tetti hanno tutti lo scarico a terra. E quando cade un fulmine va via l’elettricità, ma si trovano torce elettriche un po’ dappertutto”. Ishigaki fa parte della prefettura di Okinawa e delle isole Yaeyama, quelle più a sud del Giappone: duemila chilometri la separano dalla capitale Tokyo, trecento chilometri da Taiwan. L’aria che si respira qui è quella tipica delle isole tropicali, e anche se tutti parlano giapponese – più lentamente di come siamo abituati a sentire, e con un marcato accento del sud – c’è qualcosa di unico nelle isole più remote del Giappone, così lontane dalla mainland, che però qui è un’altra isola. Perfino la storia da queste parti è diversa rispetto al resto dell’arcipelago. Una storia spesso dimenticata, ma che spiega perché, ancora oggi, Okinawa è la spina nel fianco dell’Amministrazione di Shinzo Abe e della sua alleanza con gli Stati Uniti.

 

Siamo nell’antico regno delle Ryukyu. Queste isole, fino al 1879, hanno avuto il proprio “sho”, il proprio sovrano, anche se già nel 1600 avevano iniziato a pagare le tasse a Tokyo, come stato vassallo. E’ un altro Giappone, diviso tra chi sente il passaggio nell’epoca della restaurazione Meji un “ritorno” alla madrepatria, e chi considera quel passaggio di storia semplicemente un’annessione. A riunire la popolazione ci pensò la Seconda guerra mondiale, ma più di tutti l’occupazione americana: tra il 1945 e il 1971 erano le Forze armate americane a controllare la prefettura di Okinawa, che fu riconsegnata al Giappone soltanto dopo il trattato di San Francisco. In cambio, Tokyo prometteva a Washington molti dollari, e la naturalmente la presenza imperitura di basi militari statunitensi.

 

Mentre gli occhi dei giapponesi erano tutti rivolti verso Tokyo, per i tre giorni di visita ufficiale del presidente americano Donald Trump che avrebbe dovuto rafforzare l’alleanza strategica tra il Kantei, il palazzo del governo di Tokyo, e la Casa Bianca, nella baia di Henoko, nell’isola principale di Okinawa, ricominciavano le proteste. Il 6 novembre scorso sono ricominciati i lavori per la costruzione di due dighe nell’area individuata dal governo centrale per la ricollocazione di parte della base militare americana di Futemna vicino a una delle più importanti strutture della Difesa americana in Giappone, Camp Schwab. E questo nonostante la fortissima opposizione del governo locale, quello della prefettura di Okinawa, guidato da Takeshi Onaga. Eletto nel 2014, Onaga è una specie di incubo per l’alleanza nippo-americana: ha fatto l’intera campagna elettorale contro la presenza militare statunitense a Okinawa, nel 2015 ha revocato la concessione per la costruzione della nuova base di Henoko e quando il governo centrale ha ricominciato i lavori, lui ha portato tutto in tribunale fino alla Corte suprema – che un anno fa ha rigettato il ricorso. I movimenti della scorsa settimana nella base di Henoko non sono passati inosservati tra i cittadini di Nago, la cittadina più vicina alla baia di Henoko, che hanno ricominciato a protestare.

 

Siamo nell'antico regno delle Ryukyu, le isole più remote del Giappone, lontane da Tokyo e perfino dal Kyushu

Okinawa è il posto più difficile da gestire per il primo ministro Shinzo Abe, ma lo è anche per l’Amministrazione americana. E’ anche per questo che il primo viaggio del neoambasciatore americano a Tokyo, William Hagerty, si sta svolgendo in questi giorni proprio a Okinawa. Il trasferimento di parte della base militare americana di Futemna dalla città di Ginowan a Henoko è una specie di “ossessione” per il governo di Tokyo, come scrisse in un celebre editoriale il quotidiano di centrosinistra Asahi Shinbun nel 2015, e se ne parla da decenni. Ma per i cittadini non è soltanto un puntiglio ambientalistico: certo, la baia di Henoko è unica dal punto di vista naturalistico, e i lavori di costruzione della nuova base militare potrebbero mettere in pericolo quell’unicità. Ma il vero problema è che l’isola di Okinawa, con poco più di un milione di abitanti, rappresenta meno dell’1 per cento della superficie terrestre giapponese, e dei 53 mila soldati americani attualmente dislocati in Giappone – più 43 mila familiari e 5 mila civili dipendenti del dipartimento della Difesa americana – il 74 per cento risiede a Okinawa.

 

Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, il Giappone è fondamentale per la presenza militare americana nel Pacifico. Geopoliticamente il discorso è limpido come quelle giornate che vengono dopo il passaggio dei tifoni tropicali. Ma quando si tratta della vita di tutti i giorni il discorso cambia. C’è la generazione degli anziani (a Okinawa c’è la più alta concentrazione di ultracenternari del Giappone) che ha vissuto la battaglia di Okinawa, la più sanguinosa e violenta della Seconda guerra mondiale. Poi c’è un’altra generazione che ha vissuto in prima persona l’occupazione americana, la Guerra fredda, le esercitazioni militari. Ancora oggi, intorno all’area della base di Futemna, per esempio, il problema sono i rumori: l’aviazione statunitense testa i suoi aerei da guerra, compie esercitazioni notturne, e nonostante le frequenti richieste da parte del governo di trovare un compromesso di coesistenza con i cittadini, alla fine i militari vincono sempre. E’ una questione di Difesa, di sicurezza nazionale. Tanto che quando i velivoli americani hanno degli incidenti – succede, soprattutto con i famigerati convertiplani Osprey – per evitare di aumentare le preoccupazioni dei civili si ricorre a quelli che Trump definirebbe “alternative facts”. Per esempio, all’inizio di ottobre un elicottero da trasporto CH53 partito dalla base di Futemna ha preso fuoco e secondo la versione ufficiale della Difesa avrebbe “effettuato un atterraggio d’emergenza” fuori dai confini dell’area di addestramento, nel nord dell’isola di Okinawa, a duecento metri dalla prima casa civile. Nessun ferito. Solo che i residenti hanno sentito il rumore, hanno visto il fumo, e sono andati a scattare delle foto, e dalle immagini si capiva chiaramente che l’elicottero non era esattamente “atterrato”, ma era caduto. Perfino il primo ministro Abe – di solito attentissimo a evitare di urtare la sensibilità dei generali statunitensi – aveva definito l’episodio “deplorevole”, domandando al ministero della Difesa un report indipendente, per capire i motivi dell’incidente e ragionare sulla sicurezza dei cittadini – nel frattempo Washington ha momentaneamente lasciato a terra tutti i CH53 in Giappone.

 

Nella baia di Henoko, nell'isola principale di Okinawa, sono ricominciati i lavori di costruzione della base militare americana

C’è poi l’ordine pubblico: i soldati americani si adattano con difficoltà alla cultura giapponese pressoché priva di microcriminalità. La prefettura organizza corsi per i nuovi arrivati, per promuovere una pacifica convivenza, ma all’ordine del giorno ci sono risse e problemi legati all’alcol, tanto che lo scorso anno la Marina americana ha deciso di proibire gli alcolici ai suoi diciottomila marinai di stanza a Okinawa. E poi ci sono le violenze. Il caso della ragazzina giapponese di dodici anni che nel 1995 fu rapita violentata e uccisa da tre soldati americani è ancora un fantasma che aleggia in tutta la prefettura. Nel 2008 l’allora segretario di stato Condoleeza Rice, in visita in Giappone, si scusò formalmente per il numero di reati compiuti dai soldati americani. La missione dell’ambasciatore Hagerty di questi giorni è complicata dall’ultimo caso in attesa di giudizio da parte di un tribunale giapponese: è quello contro l’ex marinaio americano e impiegato civile della base di Kaneda, Kenneth Franklin Gadson, accusato di aver rapito, violentato e occultato il cadavere di una ventenne di Okinawa, il cui corpo fu ritrovato nel maggio del 2016, solo dopo la confessione di Gadson.

 

A quattrocento chilometri a sud dell’isola principale di Okinawa, con le sue battaglie per cacciare i soldati americani, c’è l’isola di Ishigaki. Fa parte della stessa prefettura, ma qui i problemi sono un po’ diversi e si legano all’alleanza con l’America e al nemico comune dei due paesi: la Cina. La città di Ishigaki è quella che amministra le isole Senkaku, chiamate da Pechino isole Diaoyu, che dal 2010 sono il simbolo della riscossa cinese, della sua espansione territoriale e della sua strategia assertiva. “Rispetto alle altre dispute territoriali, quella che riguarda le Senkaku è davvero la più importante”, spiega al Foglio Yukio Okamoto, presidente della Okamoto Associati ed ex advisor di due primi ministri, uno dei più importanti commentatori degli affari giapponesi. Secondo Okamoto, per capire l’importanza strategica delle isole che compongono l’intera prefettura di Okinawa, e soprattutto delle isole Senkaku (otto isolotti per un totale di sette chilometri quadrati calpestabili), bisogna ricordare la storia. Per esempio, durante l’occupazione americana di Okinawa, gli americani usavano le Senkaku come luogo d’addestramento, “le bombardavano”, e se fossero state cinesi sarebbe stato, come dire, un atto di guerra, no? Ecco, infatti l’America anche ultimamente si è espressa in favore di Tokyo sulla disputa: “Il problema è che l’America dice: siccome sono amministrate dal Giappone allora fanno parte del trattato di Difesa Usa-Giappone. Ma la sovranità è un’altra cosa”, dice Okamoto. Nel museo di storia di Ishigaki sono conservate le riproduzioni di un paio di lettere di ringraziamento datate 1920, inviate da ufficiali cinesi al sindaco di Ishigaki e ad alcuni pescatori giapponesi che avevano salvato alcuni colleghi cinesi da un tifone proprio nelle acque intorno alle Senkaku. E’ una delle prove che il governo giapponese usa per dimostrare l’inconsistenza delle rivendicazioni cinesi, iniziate formalmente nel 2010.

 

Il sindaco di Ishigaki: "Qui tutti i cittadini si rendono conto che quelle sono le nostre isole, e bisogna difenderle a ogni costo"

Con 229 chilometri quadrati e quasi 48 mila abitanti, Ishigaki è un’isola tranquilla, dove perfino la religione è lontana dallo shintoismo giapponese e dal buddismo – i rituali e il folclore locali sono comunque legati al riso e alle sue stagioni, come spesso accade nella tradizione asiatica. Al museo di storia ci spiegano che fino alla fine del 1800 Ishigaki era pure un’isola piuttosto chiusa: non aveva molti rapporti commerciali, e si usava la pesca per la sussistenza. Ancora oggi in un qualsiasi ristorante di Ishigaki, ma perfino al mercato centrale, il posto d’onore non ce l’ha il pesce, ma il porco. Il maiale. Mangiato in tutte le sue forme e in tutte le sue parti, dalle zampe alle orecchie, di cui esistono perfino snack confezionati al supermercato. Fino un paio di secoli fa anche le tecniche di pesca erano rudimentali, e in parte cambiò quando arrivarono “i pescatori di Itoman”, la città più a sud dell’isola principale di Okinawa, che compravano i bambini maschi dalle isole intorno, li portavano come equipaggi sulle imbarcazioni da pesca e poi, compiuti i vent’anni, li rispedivano indietro – uno sfruttamento che finì nel 1945, con l’arrivo degli americani. Oggi i pescatori di Ishigaki sono quelli che ne sanno di più sulle isole Senkaku, e quando raggiungiamo il porto ce ne sono pochi in giro, per via del tifone. Non vogliono parlare molto di politica, ma tutti chiedono una sola cosa: poter tornare a pescare nelle acque attorno alle isole, perché per via della disputa sono ormai costretti a pescare soprattutto a sud di Ishigaki, e le risorse ittiche iniziano a scarseggiare. Il problema, secondo l’Associazione pescatori, è soprattutto l’accordo che il governo centrale di Tokyo ha fatto con Taiwan (che pure, in modo molto più moderato, rivendica le Senkaku) in chiave anticinese: i pescatori giapponesi sono vessati dai pescherecci cinesi ma pure da quelli taiwanesi. Secondo gli ufficiali della Guardia costiera di Tokyo il pattugliamento ventiquattr’ore su ventiquattro delle otto isole Senkaku è fondamentale per mantenere lo status quo: “I pescatori giapponesi in realtà possono andare a pescare in quelle acque, ma devono chiederci l’autorizzazione e una nostra motovedetta deve accompagnarli”, ci dice un ufficiale della sala di controllo di Tokyo che preferisce mantenere l’anonimato. Forse, per i pescatori, andare accompagnati non è esattamente l’obiettivo.

 

Se tra le leggende che circolano tra i pescatori più anziani c’è quella della ricchezza delle acque intorno alle Senkaku, secondo il sindaco di Ishigaki, Yoshitaka Nakayama, l’obiettivo dei cinesi non è quello, ma “semplicemente allargare il proprio territorio”. “Il problema nasce nel 2010”, dice a colloquio con il Foglio il sindaco, “con il caso della collisione volontaria del peschereccio cinese contro una imbarcazione giapponese nelle nostre acque. La Guardia costiera trattenne il capitano dell’imbarcazione, che poi però fu rilasciato. Allora Shintaro Ishihara, che era sindaco di Tokyo, decise di lanciare una raccolta di soldi e acquistare le isole”, che erano amministrate fino ad allora da un privato cittadino giapponese. Per evitare lo scontro diplomatico, il governo giapponese fermò l’iniziativa di Ishihara e acquistò direttamente le Senkaku dal privato, “con quei soldi inutilizzati tra poco apriremo un museo sulle isole, qui a Ishigaki”, ci dice il sindaco Nakayama. Ma i cittadini non pensano che le isole siano una scocciatura? “No, qui tutti sanno che sono nostro territorio, e vanno difese. Fino ad ora non abbiamo potuto metterci piede, perché se lo facessimo scateneremmo delle reazioni. Ma ogni anno domandiamo al governo di mandarci sulle nostre isole, con i nostri scienziati e studiosi, per controllare la salute degli animali e delle piante che le popolano”. Per il sindaco non c’è alcun dubbio: lo stand-off tra Tokyo e Pechino è solo politica, e ci mostra le fotografie di fine Ottocento, quando duecento giapponesi effettivamente abitavano le Senkaku, e ci producevano il katsuobushi, il tonno essiccato e grattuggiato.

 

Centocinquanta chilometri di oceano dividono le coste di Ishigaki dalle isole Senkaku. Per questo oggi l’obiettivo principale del governo è aumentare la presenza militare sull’isola, che fino a oggi ha ospitato solo un comando della Guardia costiera. “I cinesi non dicono quali intenzioni hanno quando attraversano le acque tra Okinawa e Ishigaki. Abbiamo migliaia di incursioni aeree ogni anno. Dobbiamo difenderci, dobbiamo essere preparati”, dice al Foglio Yoshiyuki Toita, membro del consiglio di Ishigaki (in quota Partito liberal democratico, nel suo ufficio una fotografia in bella mostra lo ritrae con il leader e primo ministro Shinzo Abe) e segretario generale della Yaeyama Defense Association. “Chiediamo la collaborazione dei cittadini per mettere nuove basi militari a Ishigaki”, spiega Toita, aggiungendo che si tratterebbe di “militari giapponesi, non americani” – una distinzione che va fatta per evitare il pregiudizio. “Nel lungo periodo credo che anche il governo di Abe sappia che il nostro nemico è la Cina. Sono bravissimi ad accendere polemiche, a fare propaganda, a mentire, ad agire mentre il resto del mondo è concentrato su altro. Certo, non credo che l’America andrà mai alla guerra con Pechino, la Cina è un paese ragionevole, ma c’è un detto: se il nemico è più debole di te, schiaccialo. Se è equiparabile a te, non toccarlo”. Per questo le Forze di Autodifesa giapponesi dovrebbero aprire delle basi a Ishigaki? “Parliamo di 500-600 militari. Così, se qualcuno invadesse le nostre isole, potremmo agire più rapidamente. Non abbiamo un istinto aggressivo, vogliamo solo difenderci”.

 

Nel frattempo, il tifone Saola ha cambiato rotta, ha raggiunto le coste di Okinawa e ha lasciato a Ishigaki il cielo limpido: “Se guardi bene laggiù, all’orizzonte, si vedono le Senkaku”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.