Abe ha una strategia per fermare il calo demografico, si chiama Waw!
Parla Rui Matsukawa, l'architetto della Womenomics nipponica
Tokyo. Un paese che non fa abbastanza figli, con un’enorme carenza di forza lavoro e una popolazione che invecchia sempre di più, e che già da tempo ha oltrepassato il punto di non ritorno: la demografia in Giappone non è più solo un fatto di numeri e statistiche, ma un problema sociale, che riguarda l’economia e la sopravvivenza stessa di intere comunità. La materia è complicata, ma per avere un’idea della portata del problema basti pensare che il livello di “ricambio” della popolazione universalmente riconosciuto è poco più di due, cioè una media di un figlio “e mezzo” per ogni coppia di persone. In Giappone, già da qualche anno, quel numero è fermo all’1,4. Da anni ci si domanda quale sia la strategia da adottare per un governo moderno e globalizzato, che fa parte delle grandi economie del mondo, e che non voglia essere accusato di infilarsi nelle camere da letto dei suoi cittadini. La risposta, ad ascoltare le voci di chi si occupa ogni giorno di questi problemi, è una: le donne. Il disastro demografico si lega infatti a un problema diffuso, nella società giapponese, che nella sua modernizzazione non è stata in grado di mettere a disposizione delle donne gli strumenti per essere lavoratrici e madri allo stesso tempo, per incentivare una scelta libera, ed evitare la trasformazione del paese nel romanzo distopico di Margaret Atwood “Il racconto dell’ancella”. Non è un caso se sia stata proprio Tokyo a lanciare la conferenza “World Assembly for Women (Waw!)”, dove da oggi, e per i prossimi tre giorni, parleranno, tra gli altri, anche il sottosegretario Maria Elena Boschi e Ivanka Trump, la consigliera speciale del presidente americano che sta per iniziare il suo tour asiatico. Perché il problema non è solo la società giapponese: sin dalla sua prima edizione nel 2014, la Waw! si è trasformata in un evento internazionale. Merito anche di una delle sue ideatrici, Rui Matsukawa, che in un colloquio con il Foglio spiega: “Il primo anno mi sono stupita per il fatto che così tante donne, che venivano da paesi diversi, e parlavano lingue diverse, si riconoscessero negli stessi problemi, anche pratici. Metterle insieme vuol dire creare un network di idee, ed è anche un eccellente metodo diplomatico”. Quarantasei anni e due figli, eletta nel 2016 nella Dieta giapponese ma già da una ventina d’anni al ministero degli Esteri di Tokyo, Rui Matsukawa è una delle menti della “Womenomics” voluta dal governo di Shinzo Abe: “Comunque la si pensi politicamente, bisogna riconoscere a Shinzo Abe il merito di aver portato al centro della sua agenda un tema che fino a poco tempo fa era un tabù”.
“Tra gli anni 70 e 80 l’opinione diffusa era che il tasso di fertilità nazionale avesse dei cali fisiologici, e poi risalisse”, spiega al Foglio Reiko Hayashi, direttrice della ricerca internazionale dell’Istituto nazionale per la popolazione di Tokyo. “Negli anni 90 però ci siamo resi conto che non era così. Ma non si poteva parlare di demografia esplicitamente, perché il tema evocava il controllo delle nascite durante la guerra”. La curva di natalità nel 1966 subisce un calo vertiginoso, “era l’anno del cavallo di fuoco, secondo l’oroscopo le bambine in quell’anno non dovevano nascere”. Negli anni 80 poi arriva il boom economico, la gender equality, uno stravolgimento della società che non va di pari passo con l’apertura di nuove scuole, con nuovi piani per le famiglie (“l’ammissione all’asilo è così difficile che viene paragonata al test d’ingresso per i college”). I progetti del governo di Tokyo per contrastare il calo demografico iniziano nel 1995, l’ultimo pacchetto di misure è di due anni fa e comprende pure una serie di iniziative locali per aiutare le persone a incontrarsi. Il fatto è che il Giappone, da questo punto di vista, resta un laboratorio: “I risultati sono contrastanti”, dice Reiko Hayashi, “per esempio nelle grandi città ci sono molte donne single, ma a Tokyo il tasso di fecondità in media sta aumentando, anche se è difficile ancora provarlo”. E la materia è delicata, soprattutto perché spesso si è accusati di maschilismo, o discriminazione: “Per esempio, i ‘dating party’ erano riservati a uomini che non avessero superato il cinquantesimo anno di età, cioè l’anno in cui, statisticamente, calcoliamo il celibato. C’è chi si è lamentato, perché aveva superato i 50 e voleva partecipare lo stesso”. Considerato che in Giappone l’aspettativa di vita sta aumentando considerevolmente, è possibile che anche l’età del celibato si sposti più in là, spiega Hayashi.
Naturalmente non è solo una questione di accoppiamenti: sin dal 2012 il governo di Tokyo si è impegnato in una serie di riforme sul sistema del lavoro che stanno aiutando la società a cambiare prospettiva, a far tornare le donne – le mamme – nel mondo del lavoro: “I giovani oggi non si sposano, non fanno figli”, dice Matsukawa, “da una parte il matrimonio per la donna significa smettere di lavorare e occuparsi solo della casa, in una visione tradizionale purtroppo ancora diffusa nella nostra società. D’altra parte, fare figli è molto costoso. Per una donna il sistema giapponese in cui si lavora tantissime ore non è un ambiente favorevole per fare figli”. Ma non si tratta di difendere la famiglia “tradizionale” a tutti i costi, spiega Matsukawa, perché alla base deve esserci sempre la “scelta individuale”. E poi, di quelle donne, il Giappone ha bisogno. Piuttosto il focus del governo è quello di creare un ambiente “favorevole” che stimoli “la felicità dei cittadini”. Un ambiente positivo, ottimista: “Stiamo cercando di premiare i capi d’azienda che stimolano i dipendenti ad avere una vita normale”, e spingiamo i salarymen a uscire presto la sera dall’ufficio, evitando gli straordinari, anche per andare a divertirsi con gli amici, senza subire pressioni. C’è poi un incentivo per il congedo parentale, dice Matsukawa: “Il sistema è fatto bene, ma ancora troppe poche persone ne usufruiscono, perché prima dobbiamo riuscire a cambiare la cultura, l’intero sistema”. Una società felice è una società più forte economicamente? “Non è chiaro se queste riforme abbiano influenzato gli ultimi dati sulla nostra economia, che sono tutti positivi. So però che nel 2012 tre milioni di donne avevano espresso l’intenzione di entrare nel mondo del lavoro, a oggi la metà di loro ci è riuscita”.
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