Foto Robert Knudsen/White House/Cnp

Com'è grottesco il complottismo

Giuliano Ferrara

Che dietro all’assassinio di Kennedy non ci fosse alcun segreto strano era già scritto in un libro degli anni Sessanta. Ma come per l’11/9, i vaccini e Aldo Moro, ci rifiutiamo di vedere che si vede solo quello che si è visto

Era il 22 novembre del 1963. Era a Dallas, lungo il Dealey Plaza. Una bellissima giornata con molto sole. Gli spari furono tre. Provenivano da un Mannlicher-Carcano modello 91, fucile italiano e arma d’ordinanza dell’esercito, prodotto a Terni nel 1940. Lo impugnava Lee Harvey Oswald. Mirava alla testa di John F. Kennedy dal sesto piano del Texas School Book Depository. Kennedy fu colpito e ucciso. Lyndon B. Johnson giurò come successore sull’aereo che riportava la salma a Washington, un’ora e mezzo dopo la morte. Oswald fu catturato, dopo che aveva fatto fuori un poliziotto che lo interpellava, l’agente John D. Tippit, all’uscita da un cinema in cui si era rifugiato. Era stato in Unione sovietica qualche anno prima, aveva tentato il suicidio in albergo, aveva sposato una russa, Marina, trafficava con i consolati cubani qui e là, scriveva lettere all’ambasciata sovietica a Washington. Due giorni dopo l’arresto fu ucciso con un colpo allo stomaco da dieci centimetri di distanza, mentre due poliziotti lo trasportavano nei sotterranei della polizia, dal proprietario di un night burlesque, Jack Ruby, ovviamente con precedenti di relazioni malavitose, sbucato dalla folla. Ruby morì di cancro qualche anno dopo, nel 1967.

  

Non potevano radunarsi più elementi, nel primo atto criminale d’eccezione integralmente televisivo e video (il cittadino Zapruder divenne universalmente famoso per aver filmato il momento degli spari da un’angolatura privata, un proto-selfie), per il divampare di mille teorie del complotto. La più strampalata nacque da un ombrello nero aperto, the umbrella man: non è un segnale sinistro che una persona a Dallas, con quel sole, avesse “casualmente” tra le mani un ombrello aperto sul prato davanti al Dealey Plaza nel momento in cui passava la macchina del presidente e venivano esplosi i colpi? C’era stato un quarto colpo, sparato dall’ombrello? Il tenutario dell’arma segreta si fece vivo e depose al Congresso: non usava ancora aprire ombrelli neri, di novembre poi, per proteggersi dal sole, la sua era una protesta bislacca quanto volete, ma una protesta, non contro Kennedy ma contro il padre di Kennedy, Joseph, che come ambasciatore americano a Londra aveva sostenuto Chamberlain nella politica di appeasement verso Hitler, e Chamberlain era famoso per l’ombrello che portava sempre con sé, oltre al resto. No, dico, ci rendiamo conto?

   

Un momento di maturazione personale di chi scrive, a metà degli anni Sessanta, fu la lettura integrale, in un volume popolare appena pubblicato e rinvenibile in edicola, che conteneva gli atti della commissione Warren. Earl Warren era il molto rispettato presidente della Corte suprema, un giudice al di sopra delle parti, e la sua Commissione dopo un paio d’anni di lavoro investigativo stabilì che Oswald aveva ucciso Kennedy nelle circostanze note, e basta. No cospirazioni. Mi sembrava ovvio che fosse così. Se è spiegabile l’ombrello, allora tutto è spiegabile: l’assassinio dell’agente Tippit, quello di Oswald, la storia personale di Ruby e la sua morte a qualche anno di distanza dai fatti, qualche ovvio depistaggio di Cia e Fbi nel clima della Guerra fredda dispiegata, i sospetti diffusi dal Kgb per paura di una ritorsione antirussa, le piroette sovietiche e cubane dell’assassino, il suo stato morale e mentale difficile da definire se non in quadro clinico, come per Las Vegas, per intenderci. Ma ora, dopo che Hollywood si era impadronita alla grande della faccenda con un film di Oliver Stone all’inizio dei Novanta, “JFK”, che indusse il Congresso a varare una legge per la desecretazione degli atti entro venticinque anni, ora che Stone ha finito di intervistare Castro (che fu nel mirino della Cia) e Putin (un altro umbrella man, ma del Kgb), ora che presidente è stato eletto un complottista ossessionale capace di accusare il padre di un competitor alle primarie, Ted Cruz, di essere stato implicato a Dallas, uno come Trump, ostile per noti motivi a Cia e Fbi, amico e sodale di Roger Stone, che crede che Kennedy sia stato fatto assassinare da Johnson e ci ha scritto su un libro, ora arrivano gli atti in archivio e si vede che non c’è un tubo o al massimo indizi di contesto che non portano da nessuna parte.

   

E’ come per l’assassinio di Aldo Moro. Chiunque avesse fatto il liceo a Roma e conoscesse una realtà sociale industriale e operaia del nord d’Italia sapeva chi erano e perché avevano agito, con quale logica politica stringente, i capi del partito armato terrorista, marxista-leninista, che avevano fatto fuori la scorta del presidente della Dc, lo avevano sequestrato per cinquantacinque giorni, avevano condotto la campagna armata di primavera con molte altre vittime e la diffusione provocatoria delle lettere dello statista imprigionato nel carcere del popolo, e poi regolarmente lo avevano ammazzato per il rifiuto dello stato a dare loro un riconoscimento politico attraverso la liberazione di prigionieri politici e comuni indicati nei comunicati Bierre. Non servivano il processo Moro bis, ter, quater e quinquies. E’ come per l’11 settembre. Come mai il Foglio proprio quel giorno, l’11 settembre, aveva in prima pagina un articolo su Bin Laden, allora sconosciuto ai più, indicato come l’uomo che “vuole uccidere gli americani”? Un ombrello anche per il Foglio? Era forse il primo attentato del radicalismo islamico? E quando si lessero i testamenti dei piloti assassini, le storie di abluzione sacrificale e rituale, le dinamiche di raccolta e organizzazione degli islamisti, quando si vide che quel che c’era da vedere era quello che si era visto, non si moltiplicarono anche allora le teorie cospirazioniste? E non hanno resistito al dispiegarsi poi del jihad, alla confessione video di Bin Laden eccetera?
Sì, il cospirazionismo è grottesco ma inestirpabile, si nutre di fiction e si riproduce su larga scala, costruisce una sottocultura che sembra imbattibile, ha attraversato la storia della mafia, dell’antimafia, della politica, delle istituzioni, del crimine e dell’anticrimine, ed è poi sfociato in coscienza generale obbligata della comunicazione sui social, un fenomeno agghiacciante della nostra epoca, che si estende ai vaccini, alle scie chimiche, ai microchip, alla vita quotidiana, ai costumi, alle scelte pubbliche e private dell’individuo e della comunità, non se ne sono esentati scrittori, saggisti, storici. Ora una piccola parte della documentazione resa pubblica a Washington e online è ancora sotto redazione cautelativa dei servizi e della polizia federale negli Stati Uniti, il disvelatore Trump ha dato sei mesi di tempo per sbrigarsi e rendere noti anche gli ultimissimi documenti, l’un per cento, che potrebbero essere quelli decisivi. Eppure era tutto scritto, e ben scritto, come in un romanzo storico attendibile, nelle pagine di quel vecchio libretto della Commissione Warren. Di generazione in generazione, a tutte le latitudini, ci rifiutiamo di vedere che si vede solo quello che si è visto.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.