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Meglio restare nei mercati che uscire di testa

Claudio Cerasa

Grecia, Gran Bretagna, Catalogna. Numeri alla mano, sono tre storie di ordinaria follia populista. Il sogno era chiudere i confini, il risultato è restare fuori dall’Europa e far regredire l’economia. Volete provare anche in Italia?

La Grecia ieri, la Gran Bretagna oggi, la Catalogna domani. E l’Italia? C’è un filo sottile, piccolo ma importante, impercettibile ma cruciale, che collega tutti i paesi dell’Europa che negli ultimi mesi sono stati attraversati dalla tentazione di sfidare i meccanismi della globalizzazione e di rinchiudersi in se stessi cercando fortuna in un mondo dominato dal sovranismo culturale e dall’indipendentismo economico. Quel filo sottile corrisponde a un meccanismo molto particolare che nel corso degli anni è diventato il vero nemico pubblico numero uno per tutte le forze anti sistema desiderose di spingere i propri paesi fuori dal principio di realtà: il filo dei mercati.

 

La trasformazione dei mercati nel vero argine al nazionalismo economico, e nel vero elemento di regolamentazione della politica, è una delle grandi storie dei nostri tempi ed è una storia che passo dopo passo sta diventando anche la più importante da mettere a fuoco per comprendere fino in fondo il percorso scellerato dell’indipendentismo catalano. Il signor tentenna Puigdemont non ha ancora deciso se sospendere o no la dichiarazione dell’indipendenza catalana ma nel frattempo l’incertezza politica generata dalla decisione irrazionale e fuori dal mondo di far giocare la Catalogna in un campionato diverso rispetto a quello spagnolo (ed europeo) ha già avuto un effetto devastante sull’economia catalana. Secondo il País, tra il primo ottobre e il 12 ottobre 2017, sono state quarantaquattro le aziende che hanno deciso di cambiare la loro sede legale o fiscale a seguito del voto illegale con cui è stata dichiarata (o forse no) l’indipendenza della Catalogna e tra queste aziende ci sono giganti come la CaixaBank (32 mila dipendenti), Gas Natural Fenosa (19 mila dipendenti), Abertis (15 mila dipendenti), Sabadell (26 mila dipendenti), Cellnex (1.295 dipendenti), Applus (18 mila dipendenti), eDreams (1.614 dipendenti). Trentuno aziende sono in cammino verso Madrid (en marche!). Quattro verso Valencia. Due verso Malaga. Due verso Alicante. Due verso Zaragozza. Una verso La Coruña. Una verso le Baleari. Una verso Biscaglia. Se esci fuori dalla realtà, la realtà ti punisce: “Il movimento separatista – ha ricordato ieri ancora il País – si è andato a confrontare malamente con l’economia, che ha costretto a un bagno di realtà tutti coloro che hanno creduto all’idea che l’autodeterminazione della Catalogna fosse qualcosa di diverso da un esercizio di demagogia”.

 

Se gli istinti separatisti verranno ridimensionati – negli ultimi giorni gli analisti di JP Morgan hanno consigliato ai loro clienti di “vendere i titoli del debito spagnolo per spostarsi con titoli in Portogallo e Germania” mentre quelli di Ing, importante banca olandese, hanno previsto che i costi della Catalexit potrebbero avere sulla Spagna un impatto negativo proporzionalmente superiore a quello che sta avendo la Brexit sul Regno Unito – buona parte del merito, come già accaduto nella Grecia di Tsipras, sarà da attribuire alla spinta di realismo indotta dai mercati benedetti e dai capitali coraggiosi. E lo stesso ragionamento forse un giorno potrà essere fatto nel Regno Unito, che sta sperimentando sulla sua pelle ormai da settimane cosa vuol dire rinchiudersi nel proprio recinto economico sfidando il principio di realtà. Interrompere il processo della Brexit oggi non è possibile ma i numeri che arrivano ormai ininterrottamente da mesi dal Regno Unito ci dicono che uscire dal perimetro della logica può avere un costo molto salato. Secondo quanto riportato dall’ultimo bollettino dell’Office for National Statistics, l’agenzia governativa britannica di statistica, il Regno Unito è al momento la peggiore tra le maggiori economie del mondo, con una crescita nel primo trimestre del 2017 pari allo 0,2 per cento. Secondo i dati della stessa Agenzia, il reddito disponibile delle famiglie, nel primo trimestre del 2017, è stato inferiore del 2 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, facendo segnare il maggior declino annuale dall’ultimo trimestre del 2011. La sterlina ha perso circa il 15 per cento del suo valore dal giorno successivo alla scelta della Brexit e il crollo, combinato con il boom dell’inflazione (più 0,3 per cento nel 2016, più 2,9 per cento oggi) ha fatto coincidere una diminuzione del potere d’acquisto da parte dei cittadini inglesi.

 

Come se non bastasse ieri, come riportato dal Telegraph, i dati sulla bilancia dei pagamenti – ovvero la differenza tra l’importo pagato a paesi stranieri per beni e servizi e l’importo che riceviamo da loro per vendere beni e servizi – hanno mostrato un altro lato negativo della Brexit: il Regno Unito, rispetto alle ultime previsioni, è più “povero” di 490 miliardi di sterline e a questo si aggiunge un deficit degli investimenti diretti esteri di 25 miliardi di sterline nel primo trimestre dell’anno, rispetto a un surplus di 120 miliardi nello stesso periodo dell’anno precedente. Come dimostrano il caso della Brexit e il caso della Catalogna, i mercati non sono affatto una minaccia per la sovranità democratica di uno stato ma sono semmai la spia di un meccanismo che non funziona quando si sceglie di ragionare più con la pancia che con la testa e quando si sceglie di occuparsi più del proprio ombelico che del futuro di un paese. In altre parole, gli ultimi anni di politica europea ci hanno dimostrato che la spinta regolatrice dei mercati ci ricorda semplicemente che viviamo in un contesto complesso in cui dobbiamo tenere presente che non esiste una scelta anti sistema che non abbia una ricaduta negativa sull’economia. Un famoso passaggio di un saggio del grande economista francese Frédéric Bastiat, la cui storia a puntate troverete ancora per qualche settimana ogni venerdì sul Foglio, ricordava che laddove non passano le merci di solito passano gli eserciti.

 

La nuova funzione di stabilizzazione delle democrazie prodotta dal metronomo dei mercati ci permette di aggiungere qualcosa di più alla teoria di Bastiat. Dove non passano le merci, passano gli eserciti. Dove passano i populisti, non passano le merci. Dove non passano le merci, o dove passano meno capitali, di solito passano più guai. I casi della Catalogna, della Brexit e in buona parte anche della Grecia, sono lì a dirci che il populismo becero ha un costo, che gli effetti dell’irresponsabilità sono forti e che un paese che ha una buona reputazione sui mercati è un paese che sta facendo qualcosa di diverso che cedere al ricatto della finanza: sta semplicemente usando un po’ di buon senso per fare il bene dei suoi cittadini e provare in un certo senso a difendere la parola democrazia dagli attacchi delle forze irresponsabili che vogliono portare i paesi fuori dal princìpi di realtà. Anche no, grazie.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.