Theresa May (foto LaPresse)

Nemmeno i conservatori si sentono tanto bene

Giuliano Ferrara

Le sinistre, d’accordo. Ma gli altri? In Francia un disastro, in Germania vincono ma perdono voti. I Tory, poi: inseguono populismi cupi e ideologie tutte perdenti

Le sinistre, d’accordo, ma anche i conservatori non è che se la passino tanto bene, in Europa e nel mondo. In Francia, disastro senza pompa né circostanze. In Germania vincono ma perdono voti a valanga. In Spagna difendono la bandiera ma sono assediati in un governo di minoranza. In America sono nelle mani di una famiglia di democratici newyorkesi quattrinari guidata da un impostore che gli ha scippato la Casa Bianca a colpi di sberleffi, e sopravanzati da sette fanatiche e fondamentaliste alla loro destra, con l’assistenza di generali prepolitici per salvare il salvabile. In Israele, mah, Netanyahu ha moglie e figlio, il che forse non è il massimo per la credibilità personale (accuse varie lei, post deliranti antisemiti lui). In Italia sono in ripresa, insomma, diciamo così, diciamolo, grazie al mio amico ottantunenne Berlusconi, che è un famoso misirizzi, una bambolina sempre in piedi, ma dovranno presto o tardi fare i conti con la realtà. In Olanda i liberal-conservatori di Rutte non riescono a fare un qualunque governo da molti mesi, e per giunta l’economia va forte e tutti se ne infischiano. E vogliamo parlare dei Tory in Gran Bretagna?

 

Boris Johnson mi piace, perché è un forsennato ed è stato un buon sindaco di Londra. Scrive interessante, vivace, ha verve nelle battute: l’ultima da ministro degli Esteri riguarda la città libica di Sirte, messa nei pasticci dalla ridicola avventura coloniale anti-Gheddafi sponsorizzata da tutti i coglioni d’Europa e d’America, ha detto che Sirte diventerà una Dubai, basta che riescano a rimuovere i cadaveri dalle strade. A uno così il principe Filippo, vecchio mirabile scarpone della gaffe, non è degno neanche di allacciare i sandali. Boris vuole il posto di numero uno, questo lo si è capito fin troppo, ha paura che con il tempo la sua classificazione (tra breve) possa essere tra quelli troppo vecchi per il job. Si dà da fare. Cerca di farsi licenziare da Theresa May, per dare l’assalto da una posizione più comoda. La tradisce dall’interno del Foreign Office, scrive articoli-manifesto in cui la contraddice platealmente sulla questione penosa della Brexit e dei negoziati con l’Unione europea, alla vigilia del suo discorso topico di Firenze. Poi succede che la May incorre nell’incidente di Manchester. Le viene la tosse. Perde la voce. Un burlone, un attore, le presenta un avviso di licenziamento mentre tiene l’orazione maestosa, e lei lo prende, quel foglio fatale, e lo classifica sotto l’ambone da cui sta parlando. Il carisma che non ci fu mai esplode mentre cadono le lettere della parola d’ordine male incollata sul retro del palco. L’impressione è disastrosa, perché il ridicolo uccide più di ogni altra cosa.

 

L’Economist, che ha sempre ragione tranne quando ha torto, sostiene che c’è una nuova generazione di leader potenziali, tra i Tory, perfetta. Scrivono da Dio, hanno studiato o insegnato a Harvard, sono simboli viventi della diversità etnica, religiosa, di genere della società britannica, sanno che cos’è un paese in cui gli studenti sono oppressi dalle rette scolastiche e universitarie e le case sono al di fuori della loro portata. Sono fit to rule Britain, quella dell’Economist è una fissazione della fitness politica. Se Cameron non avesse convocato il famoso referendum, famigerato, che lo ha schiantato, ora questa sarebbe la generazione dei torchbearers, quelli con le idee, con l’energia per farle conoscere e per attuarle. Se la May non avesse giocato al bilancino e non avesse convocato le elezioni, vinte ma perse, contro l’incredibile rimonta di Corbyn. Se, se, se. Ecco, quando si è al “se” sistematico, vuol dire che le cose vanno veramente maluccio.

 

Non dico che il capitalismo si sia rigenerato, ma non è degenerato, come era avvenuto con la crisi del ’29 e come auspica sempre il buon Tremonti, resiste alla prova del 2008, della Lehman Brothers, ingaggia i suoi spiriti animali in una ripresa anche robusta, scommette su nuove regole in Europa, con Macron che fa tanto ridere il nostro ex ministro dell’Economia, ma ci andrei piano con le risate, fossi in lui. Eppoi l’alternativa non si vede. C’è Maduro, la retorica della teologia del popolo bergogliana, Raul Castro che rende sordi i diplomatici americani, Oliver Stone che fa la propaganda a Putin, quello che non si farebbe mai una doccia in compagnia di un omosessuale, Mélenchon che declama i poeti greci contemporanei rumoreggia nelle piazze di Parigi, c’è stata la Woodstock di Glastonbury con i nudisti, la birra e l’ammucchiata dell’altro mondo possibile, Ken Loach ride sotto i baffi, fuochi d’artificio, poi bisognerà governare con i fitti bloccati, le requisizioni, le nazionalizzazioni a raffica, e la retorica sensibile, decente, moraleggiante del nuovo mondo di là da venire. Il problema dei conservatori britannici è che la difesa e il rilancio di un tempo di prosperità, di welfare, di profitti, di investimenti, di nuove tecnologie, di possibilità inaudite oltre i confini della nazione non li riguarda più, stanno inseguendo populismi cupi, ideologie varie, tutte perdenti anche quando minacciano di vincere. E per questo non si sentono tanto bene.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.