Theresa May e Emmanuel Macron (foto LaPresse)

La soft Brexit non esiste

Paola Peduzzi

Tormentato dai ripensamenti il Regno Unito si chiede come si diventa morbidi, quale prezzo si paga e quanto è plausibile un passo indietro. E gli europei sperano

Se torni da me annullo tutto, scrisse Nicolas Sarkozy alla sua ex moglie Cécilia qualche giorno prima del matrimonio con Carla Bruni. Se tornate, siamo qui a braccia aperte, dicono gli europei agli inglesi, a pochi giorni dall’inizio del negoziato sulla Brexit, previsto per la settimana prossima. Quel ripensamento che è sempre stato escluso perché il-popolo-sovrano-ha-deciso e vuole il Regno Unito fuori dall’Unione europea ora sembra quasi un’opzione. E tutto lo scherno gettato su Tony Blair, ex premier laburista che in ogni modo ha cercato di far passare l’idea che cambiare idea è una possibilità, nessuno compra una casa costosa senza averla prima almeno vista, appare come un capriccio da conti in sospeso mai regolati: e se gli inglesi avessero davvero cambiato idea?

 

La lista
delle combinazioni "soft" non soddisfa né chi vuole controllare l'immigrazione né chi ambisce
al commercio libero

Gli europei, che si sentono fortissimi perché hanno ritrovato un’energia perduta decenni fa e vedono quanto il Regno Unito sia invece in difficoltà, lanciano l’offerta: il presidente francese, Emmanuel Macron, dice al premier inglese, Theresa May, che una no Brexit sarebbe un sollievo, parliamone, siamo pronti a tutto. Il ministro delle Finanze tedesco, l’austero Wolfgang Schäuble, dice che le braccia europee sono aperte se gli inglesi rinunciano alla Brexit, e molti commentatori inglesi si stupiscono: perché questa non è la prima notizia, l’unico tema di cui discutere? Forse perché la Germania ha sempre ostentato l’altra guancia e la cancelliera, Angela Merkel, non ha mai assecondato l’istinto punitivo di molti suoi colleghi europei. Anche se in realtà, con i suoi modi soavi e chirurgici, è stata la prima a fare infuriare la May e a scatenare una delle sue reazioni furibonde: a fine aprile, quando la campagna elettorale inglese era appena iniziata e il copione della vittoria dei Tory pareva scritto e immutabile, la Merkel disse parlando al Bundestag che Londra doveva smetterla con le “illusioni”, uno stato non membro dell’Ue non avrebbe mai ottenuto gli stessi diritti di uno stato membro, nemmeno in seguito a un negoziato perfetto. La May disse che gli europei stavano cercando di sabotare le elezioni inglesi, di instillare dubbi inesistenti: la Brexit si farà e sarà un successo. La premier inglese non poteva immaginare che, poche settimane dopo, si sarebbe ritrovata a dover considerare una versione morbida della sua prospettiva “hard” di Brexit. Non solo: non immaginava di dover essere costretta ad ammettere che la versione “soft” della Brexit è politicamente tanto inaccettabile, è tecnicamente tanto punitiva, da rendere quasi preferibile una no Brexit.

 

Cosa succede
se poi non si raggiunge un accordo politico,
se l'offerta di Bruxelles non è mai abbastanza? Una domanda tabù

Cosa si intende quando si dice “soft” o “softer” Brexit? Si intende la revisione di una o più delle linee rosse fissate dal Regno Unito nella lettera del 29 marzo scorso, con la quale è stato attivato l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che apre la procedura che porta all’uscita del paese dall’Ue. Le linee rosse sono: blocco della libertà di movimento delle persone, uscita dal mercato unico e dall’unione doganale, riduzione dei pagamenti nel budget europeo, la fine della partecipazione alla Corte europea di giustizia che ha giurisdizione anche sulla legge britannica. Su Buzzfeed, Alberto Nardelli, responsabile delle questioni europee, ha fatto un utile elenco delle possibili combinazioni più morbide della Brexit: il Regno Unito potrebbe decidere di rimanere nel mercato unico, ma Bruxelles ha detto e scritto chiaramente che un paese o è dentro al mercato unico o è fuori. Non ci sono vie di mezzo o statuti speciali o accordi transitori possibili. O dentro o fuori. Questo significa che “ogni proposta di rimanere nel mercato unico senza la conferma della libertà di movimento delle persone – scrive Nardelli – è una non possibilità (oltre che una perdita di tempo), come hanno detto sia il ministro della Brexit David Davis sia il cancelliere dello Scacchiere ombra, il laburista John McDonnell”.

 

 

 

Un’altra proposta di morbidezza è quella di rimanere nell’unione doganale. In questo modo le merci per e da il Regno Unito continuerebbero a circolare all’interno dell’unione doganale. Ma questo significa anche che le tariffe esterne all’unione continuerebbero a essere regolamentate con le regole attuali, quindi la possibilità del Regno Unito di negoziare accordi con altri paesi a proprio vantaggio verrebbe meno. Cioè l’ispirazione liberale della Brexit che proietta il Regno Unito in un mercato aperto in cui Londra gioca autonomamente il proprio ruolo di potenza commerciale non avrebbe più uno spazio in cui esercitarsi.

 

Se tornate,
vi accogliamo a braccia aperte, dicono
gli europei agli inglesi.
Il consiglio di Cameron (che assomiglia a quello di Blair)

C’è poi la questione dei diritti dei cittadini europei che vivono nel Regno e quelli degli inglesi che vivono nell’Ue: sia i conservatori sia i laburisti hanno detto di voler salvaguardare questi diritti, e anzi il Labour di Jeremy Corbyn ha fatto una dichiarazione vincolante unilaterale a garanzia di questi diritti. Ma il problema non riguarda tanto il presente, quanto piuttosto il futuro e i possibili contenziosi che ne potrebbero derivare: l’organismo preposto a queste dispute è la Corte europea di giustizia, un arbitro sovranazionale che permetterebbe di evitare a ogni paese membro dell’Ue la necessità di armonizzare la propria legislatura al cambiamento britannico. Ma al momento la giurisdizione europea della Corte è considerata una linea rossa invalicabile.

 

L’approccio “soft” che ora ricorre in tutti i discorsi londinesi implica in realtà un cambiamento radicale nei princìpi ispiratori della Brexit nell’attuale versione. Non si tratta di cambiamenti semplici: significa tradire la richiesta-del-popolo che ha votato per la Brexit, che in nome di un recupero di sovranità e del controllo dell’immigrazione ha deciso di incamminarsi su una strada tanto incerta. Una Brexit che non rispetta quella richiesta non è una Brexit. Matt Chorley, che si occupa dell’imprescindibile Red Box del Times, ha iniziato a porre delle domande. “Brexit means Brexit, e vogliamo che sia una successo”, inizia Chorley, ma “cosa succede se non c’è un successo da inseguire? Cosa succede se non c’è una maggioranza parlamentare per una Brexit hard, soft, pulita, rossa, bianca e blu? Cosa succede se l’accordo con il Dup (il partito nordirlandese con cui i Tory stanno negoziando un’alleanza per avere la maggioranza ai Comuni, ndr) traballa e poi collassa? Cosa succede se, qualunque sia l’offerta di Bruxelles, i sostenitori del ‘remain’ tra i Tory la considerano troppo estrema e i sostenitori del ‘leave’ tra i Tory al contrario la considerano non sufficientemente estrema? Cosa succede se semplicemente non c’è una modalità che soddisfi chi vuole dare la priorità al commercio e chi vuole darla al controllo dell’immigrazione?”. Il percorso verso la Brexit, complicato e controverso, pareva definito, ma oggi le domande che un anno fa venivano poste con insistenza e sembravano aver trovato una risposta tornano, tutte in fila, tutte improvvisamente urgenti.

 

Chorley è impietoso: c’è la possibilità che il Labour, avendo guadagnato un consenso insperato, faccia il proprio gioco politico, rifiutandosi di accogliere ogni accordo negoziato da un premier debolissimo, o le leggi che lo renderebbero concreto. Il conto alla rovescia è cominciato il 29 marzo scorso, la procedura prevede due anni di tempo, non si scappa, “e se poi la pazienza del paese si esaurisce? Se l’opinione pubblica cambia e i sondaggi mostrano che ormai la maggioranza considera la scelta della Brexit sbagliata?”. Il rimpianto esiste da sempre, dal giorno dopo il referendum, ma nel tempo si era ristretto, o forse soltanto quietato: prima del voto dell’8 giugno scorso, le rilevazioni dicevano che anche i “remainers” si erano ormai adeguati alla realtà: la Brexit non si può evitare. Ma ora tutto cambia, e poiché molto di quel che accade è diventato imprevedibile, non è più così impossibile che qualcuno pronunci la domanda fatidica: “Non ci conviene rimanere nell’Ue, dopotutto?”.

 

Una via di fuga c’è, ma è temporanea: riguarda gli accordi transitori, che si possono negoziare per gestire quel che accadrà dopo il 29 marzo 2019, quando scadranno i due anni del negoziato, il Regno Unito uscirà formalmente dall’Ue, ma con modalità queste sì più morbide. La chiamano “long Brexit”, ed è al momento invocata dai cosiddetti pragmatici, quelli che non se la sentono di ammettere che l’alternativa alla hard Brexit è molto vicina a una no Brexit, ma che al tempo stesso sanno che allo stato attuale una hard Brexit è pressoché impossibile da ottenere. Philip Hammond, cancelliere dello Scacchiere, è considerato uno di questi pragmatici, lui che pensava che avrebbe perso il posto al governo dopo il voto dell’8 giugno e ora invece sembra un gestore credibile di questa fase così turbolenta di adattamento a una nuova realtà.

 

I pragmatici puntano
a un accordo transitorio che lasci tempo
per prepararsi e progettare l'uscita.
Il loro leader
è Hammond

Per mesi i giornali inglesi hanno raccontato la faida tra Hammond e la May, per mesi la caduta del responsabile dell’Economia è parsa inevitabile e imminente: Hammond ascoltava gli imprenditori e gli investitori, guardava i dati reali – il pil che si contrae e l’inflazione che sale – e tornava dal premier dicendo: non possiamo fare l’hard Brexit. Costa troppo, politicamente, ma anche economicamente. Non possiamo permettercela. La May ascoltava ma non si ammorbidiva, e intanto continuavano ad arrivare ai giornali aneddoti tremendi su Hammond, e in compenso la lista dei suoi sostituti era lunga e varia e pareva quasi che chiunque andasse bene, basta non l’attuale tenutario del ministero. Poi tutto è cambiato e ora Hammond sembra al lavoro sulla “long Brexit” (assieme al ministro dell’Interno Amber Rudd, che alle elezioni è stata confermata nella sua circoscrizione per un soffio e che era nella cima della lista dei sostituti di Hammond): l’obiettivo è mantenere lo status quo, registrando un’uscita formale dall’Unione europea, ma una continuità sostanziale rispetto alla situazione attuale, negoziata attraverso gli accordi transitori. In questo modo il Regno Unito potrebbe organizzare un’uscita ordinata, senza gli scossoni attuali, con una pianficazione e una preparazione che al momento non sembrano esistere. Si potrebbe anche evitare che un “no deal” interrompa per sempre i sogni di una Brexit di successo, perché il mantra della May “no deal is better then a bad deal” oggi suona più che sinistro: suona come una condanna. Naturalmente questo significa anche che, nell’interim, la libertà di movimento delle persone continuerà e che gli accordi commerciali dovranno attendere. Cioè nemmeno negli accordi temporanei è possibile prendere il meglio dell’Europa e abbandonare il resto, con il risultato che l’opzione più plausibile è quella in stile Norvegia, in cui si partecipa al budget, si rispettano le libertà di movimento di merci, persone, servizi e capitali, e non si ha però più diritto di veto. Che il Regno Unito possa sentirsi in questo modo più forte e più libero pare altamente improbabile.

 

 

Le alternative alla hard Brexit sembrano complicate, ma invocarle è l’unica strada ora percorribile. C’è chi lo fa con tutto l’astio possibile, puntando sulla debolezza della May per annientarla definitivamente: la paladina dell’hard deve chinare la testa, dicono i nemici, il cui leader è lo sghignazzante direttore dell’Evening Standard nonché ex cancelliere dello Scacchiere George Osborne. Ma se schivare i nemici è molto difficile ora che l’aria di golpe è densa (per quanto priva di una leadership contrapposta forte), alcuni le suggeriscono di non andare allo scontro frontale: il rischio di perdere è invero alto. Così lo Specator, magazine conservatore pro Brexit e pro May (l’idea del cosiddetto “partito dei lavoratori” come trasformazione dei Tory è stata coltivata sulle pagine di questa rivista storica), suggerisce alla premier di dare ascolto al suo predecessore, David Cameron, che due giorni fa, in visita in Polonia, ha detto: la May dovrebbe abbracciare una versione più morbida della Brexit e trovare il più ampio consenso possibile con gli altri partiti. La reputazione di Cameron non è alle stelle tra i Tory: gli antiBrexit lo considerano l’artefice opportunista della scelta referendaria sciagurata; i pro Brexit lo detestano perché lui, appunto, non è per la Brexit. In quest’anno dalle sue dimissioni, Cameron ha tenuto un basso profilo, e anche se un po’ di nostalgia si sentiva, il suo nome era comunque impronunciabile. Ora dà un consiglio che suona quasi eretico: lavorare con gli altri partiti – leggi il Labour, che è il partito d’opposizione più forte – per una Brexit morbida? Pare una follia anche storica, ché il lavoro d’opposizione nel Regno Unito è una cosa seria e pure brutale. Ma questi non sono tempi normali, e l’obiettivo è costituire una forza unita e credibile che possa prospettare un percorso per la Brexit che non vada soltanto a detrimento – come è accaduto di fatto finora – dell’interesse inglese e del suo potere negoziale. Sembra di sentire, nelle parole di Cameron, l’eco di quello che è andato ripetendo Blair, quando dice: valutiamo insieme che genere di accordo vogliamo, facciamoci le domande ora che ancora possiamo formulare una risposta, non quando sarà troppo tardi, e la pazienza di tutti sarà esaurita.

 

Che May possa dare seguito a questi consigli è parso finora quasi impossibile, ma ora tutto è cambiato e lei che ha sbagliato il calcolo più importante della sua carriera – quello delle elezioni anticipate – ora non può commettere un altro errore strategico. E la baldanza del Labour corbyniano, con i suoi eccessi e con le sue dichiarazioni confuse (non si sa come Corbyn pensi di controllare l’immigrazione e allo stesso tempo restare nel mercato unico: il più grande generatore di illusioni sulla soft Brexit è lui), potrebbe convincerla che il dialogo bipartisan sia il più utile.

Gli europei ci sperano, cavalcano l’idea che davvero si possa dimenticare questo brutto anno, sarebbe una vittoria dell’Europa inimmaginabile. Se tornate, le braccia sono aperte, dicono fiduciosi. Come Sarkozy a Cécilia. Ma lei, l’ex moglie, a quel messaggio non rispose mai.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi