Bruxelles, Macron e Merkel al vertice NATO (foto LaPresse)

La goduria di un nuovo patriottismo europeo

Giuliano Ferrara

Non si può non prendere atto dell’autosospensione americana da un ruolo propulsivo nel commercio e nella politica mondiali. L’asse franco-tedesco è abbastanza forte per vigilare

Non si smonta in un giorno né con una dichiarazione elettorale, tra una birra e l’altra, il nesso transatlantico. Angela Merkel è stata misurata, ma anche coraggiosa e intransigente nel mettere il suo bollo politico di dissenso alla cerimonia del disamore inscenata a Taormina e alla Nato dal presidente americano. Ha avuto la solidarietà del competitore alla cancelleria, Martin Schulz, sebbene qualche sopracciglio si sia alzato anche in Germania quando ha detto a Monaco che bisogna ormai fare da soli, pressappoco, e che il destino degli europei torna nelle loro mani perché l’alleato è inaffidabile, o se volete, come ha detto il socialdemocratico Sigmar Gabriel, gli Stati Uniti con Trump diventano un paese che rinuncia all’importanza del proprio ruolo nel mondo. In materia ci dobbiamo aspettare molti va’ e vieni, sfumature su sfumature, c’è l’impiccio ingombrante del negoziato con il Regno Unito per l’uscita dall’Unione, c’è la posizione meno pessimista di Macron a Parigi, c’è tutta una reticolare interdipendenza che, a parte le pur decisive necessità di coordinamento nell’intelligence alle prese con il jihad, ha a che fare con le economie dei ventisette paesi dell’Ue compresi i non-euro, con la tendenza esplosiva alle democrature in parte dell’Europa centrale, con le pressioni discrete e indiscrete del potere putiniano da Mosca, con le formidabili tensioni storiche della mappa bellica mediorientale e della sponda sud del Mediterraneo, e altri argomenti importanti che riguardano la finanza globalizzata, il modello di società, la eco e il ricordo di uno storico, secolare, ruolo protettivo del modello americano in Europa. Può essere che tutto vada precipitosamente male, come predicono Fukuyama e Panebianco, come è legittimamente da temere, ma i margini della politica coincidenti con la fatalità dell’Atlantico sono ancora un elemento della mappa mondiale. L’Europa è ancora abbastanza forte, tra Parigi e Berlino, per esercitare una certa attiva vigilanza.

 

Bisogna aggiungere che il supplemento di campagna elettorale nel segno dell’America First che l’impostore di Washington impone al suo paese e al mondo si consuma nel dubbio, nel lavorìo dei pesi e contrappesi della democrazia liberale americana, nello scetticismo se non nella sconfessione di tanta parte dell’America. Con i suoi atteggiamenti bullistici, sgraziati, privi di senso del tatto diplomatico e di cultura storica, l’impostore si rivela più fragile di quanto si creda, espone sé stesso mentre ci espone tutti alla grande paura dell’isolazionismo, e fa tutto con un approval minimo, con un’opinione anche elettorale ai ferri corti, che tra un anno e poco più verrà decisivamente sondata, per non parlare del disastro interno al suo staff familista e delle inchieste in corso sugli eventuali reati penali, per non dire infine delle trasgressioni etiche e politiche, dei suoi spuri rapporti con Mosca.

  

Però l’appello al patriottismo europeo di Merkel sottolinea che se si dovrà ristrutturare l’apertura mondiale delle società di mercato e di democrazia liberale, sconfitti i populismi emersi nell’effimera conferenza bassoreazionaria di Coblenza, bisognerà farlo a ripartire dalla relazione speciale franco-tedesca e dal progetto federativo inteso nel senso delle sue premesse anche più ideologiche, alla Jean Monnet. L’Europa non può ripetere il meccanismo della Guerra fredda e insieme modificarlo, come accadde all’origine con l’incontro tra De Gaulle, Adenauer e De Gasperi, o più tardi con la stretta di mano tra Kohl e Mitterrand, sarebbe grottesco. Ma non può non prendere atto dell’autosospensione americana da un ruolo propulsivo nel commercio e nella politica mondiali, multilaterale o unilaterale poco importa. Sono cose dell’Amministrazione di Washington, in un certo senso anche limitate, e di una branca dell’amministrazione, cose che non esauriscono e anzi contraddicono in parte la società americana, il magma delle tecnologie, della ricerca, dell’innovazione, del commercio mondiale irrorato da stati “secessionisti” come la California e dalle industrie d’avanguadia comprese le loro leadership (basta leggersi il discorso a Harvard di Marc Zuckerberg).

   

E la discussione vera non verte sull’accordo di 197 nazioni sul clima, discutibile sebbene incredibilmente popolare ovunque, o sulla necessità di adeguare le spese europee della Difesa (indiscutibile) o altre circostanze da inventariare, prima tra tutte la questione del neoprotezionismo contro il liberoscambismo. E’ che antiche nomenclature politiche dotate di senso non possono tollerare quella stretta di mano dominante che scuote a vuoto e fa le nocche bianche per lo sforzo, quel burinismo in marmo e oro o Mar-a-Laghismo che è un insulto permanente al linguaggio della politica, dunque alla sua sostanza, una faccenda buona, ma con mille riserve, per l’ingenuità disperata israeliana, ottima per la cupidigia di dominio sunnita-wahabita, non per le vecchie democrazie europee uscite vittoriosamente dai fascismi e dai nazionalismi del Novecento, quando furono decisivi l’aiuto, il sostegno e il sacrificio di un’altra America, oggi irriconoscibile nelle abitudini e nella futile sfarzosità narcisistica di un interlocutore inaffidabile.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.