Cosa ci dicono i numeri del referendum sulla Turchia di Erdogan
Una società divisa lungo più linee di frattura, i voti nazionali e quelli dall'estero. Ecco come si possono interpretare i risultati delle urne
Recep Tayyip Erdogan si è aggiudicato domenica scorsa la sua vittoria più incerta sin da quando, nel 2003, ha conquistato la poltrona di primo ministro e poi di presidente della Turchia nel 2014. La riforma attribuirà, a partire dal 2019, nuovi decisivi poteri al presidente, che fino a domenica era stata una figura cerimoniale e indipendente dai partiti politici. In realtà, già dalla sua elezione, Erdogan aveva dato al suo ruolo una profondità politica, e si era presentato come paladino degli elettori musulmani che si sentiono oppressi dall’élite urbana e laica al governo del paese sin dalla fine dell’Impero ottomano.
Secondo l’agenzia di stato Anadolu il “Sì” alle riforme costituzionali ha vinto con un margine del 51,4 per cento contro il 48,6 di contrari, ma i dati ufficiali dovrebbero essere forniti tra una decina di giorni. Tuttavia, i due principali partiti di opposizione contestano il risultato per violazioni della procedura di conteggio dei voti. Oggi però l’Alta Commissione elettorale turca (Ysk) ha respinto i ricorsi. La campagna elettorale si è svolta in un’atmosfera segnata da un controllo asfissiante sull’attività politica, seguito al fallito colpo di stato militare dello scorso 15 luglio, nel quale sono morte più di 200 persone.
Scampato al golpe, Erdogan ha cercato di consolidare il suo potere e ha ordinato la carcerazione di decine di migliaia di dipendenti pubblici, soldati, poliziotti, insegnanti, giudici. Con una campagna parallela di arresti, centinaia di membri di uno dei maggiori partiti di opposizione – il filo-curdo Hdp – sono stati imprigionati con l'accusa di terrorismo. Tredici deputati dell’Hdp sono ancora in carcere e il paese detiene anche un altro record orrendo perché da solo conta la metà dei giornalisti imprigionati nel mondo.
Alle ultime elezioni (nel 2015) il partito di Erdogan, l’Akp, aveva ottenuto il 49 per cento dei voti. Insieme al partito di opposizione ultranazionalista Mhp, la cui leadership ha sostenuto il “Sì” al referendum, avrebbe dovuto raggiungere il 60 per cento dei voti nelle ultime elezioni. Ma domenica ha ottenuto un risultato che è di 10 punti percentuali più basso. Questo potrebbe significare che l'intera base elettore del Mhp ha seguito la ex-leader e oggi dissidente Meral Akşener, che ha fatto campagna per il “No”, tuttavia sarebbe davvero improbabile. È più facile pensare che una parte dei sostenitori dell'Akp questa volta abbia votato contro Erdogan.
Ecco che cosa possiamo capire dai numeri usciti dalle urne.
Le fratture sociali
La società turca è divisa lungo più linee di frattura: secolaristi contro islamisti, liberali contro conservatori, nazionalisti turchi contro nazionalisti curdi. Il referendum ha visto salire sulla stessa barricata gruppi che di solito si disprezzano a vicenda, come ad esempio l’Hdp filo-curdo e i dissidenti guidati dall’ultranazionalista Akşener.
Un dato geografico
I risultati del voto nazionale ci dicono che si sono aperte alcune fratture nella base tradizionale del presidente. Erdogan ha perso per la prima volta il sostegno in quattro delle cinque città più importanti. Istanbul, con i suoi 15 milioni di abitanti, e la capitale Ankara, con 5 milioni, hanno votato “No”, insieme con Smirne e Adana (4 milioni e 2 milioni). Rimane in mano all’Akp soltanto Bursa, antico cuore dello stato ottomano, con 2,7 milioni di abitanti. A Istanbul, dove Erdogan è nato e ha fatto carriera fino a diventare sindaco nel 1994, la campagna del "No" ha conquistato anche il feudo conservatore di Üsküdar e il quartiere di Kasimpașa, dove il capo di stato viveva da bambino. Mentre Izmir è nota come roccaforte del più importante partito di opposizione, il repubblicano Chp, la perdita di Istanbul è stata un dolore per Erdogan: il suo governo ha pompato enormi quantità di denaro nella megalopoli per pagare ambiziosi progetti infrastrutturali usati come simboli del successo dell'Akp.
Se il cuore dell'Anatolia centrale continua a sostenere Erdogan, come fa da quando è arrivato al potere nel 2003, le città costiere dell’Egeo e del Mediterraneo – che vivono sui ricavi del turismo e soffrono il crollo dell'ultimo anno – hanno scelto di fermare la corsa del partito di governo.
Questa differenza tra zone urbane e zone rurali ricorda i risultati alle presidenziali degli Stati Uniti o al referendum sulla Brexit nel Regno Unito, ma in Turchia la frattura non è così netta: il sud-est curdo, in gran parte rurale e sottosviluppato, si è opposto al cambiamento della Costituzione e anche diverse roccaforti dell’Akp sul Mar nero hanno ceduto al “No”. A proposito delle aree a maggioranza curda, bisogna notare che il divario percentuale è ridotto: molti curdi conservatori votano per Erdogan e non considerano affidabile il partito di opposizione Chp, erede del fondatore dello stato Mustafa Kemal “Atatürk”, che è considerato responsabile dell’oppressione etnica.
La minoranza curda
Quando Erdogan e l'Akp salirono al potere, furono salutati da molti come una boccata d'aria fresca. Anche dai curdi, cui prima era proibito persino scrivere nella propria lingua. Dopo le elezioni del 2015 però “Erdogan ha guidato il collasso del processo di pace con i curdi e nel frattempo un'insurrezione violenta ha galvanizzato gli elettori alla causa nazionalista. Il terrorismo curdo ha accelerato il distacco di molti curdi dall’Hdp”, ricorda Kemal Öztürk sul quotidiano Yeni Safak. “Lo abbiamo visto nell’aumento in quasi tutte le città curde dei voti per l’Akp. Città come Van, Mardin, Diyarbakir, Batman e Hakkari hanno registrato un aumento considerevole di elettori favorevoli a Erdogan”. A Diyarbakir – la capitale de facto dei curdi in Turchia, coinvolta in scontri pesantissimi l’anno scorso – il 68 per cento ha comunque votato "No" e a Sirnak e Tunceli il No ha raggiunto il 71,5 e l’80,3 per cento. Il partito curdo Hdp sostiene di non aver avuto il permesso di inviare 150 osservatori nei centri di conteggio e sta contestando i risultati di centinaia di seggi, come ha fatto sapere lunedì il portavoce Osman Baydemir ai giornalisti.
Il voto dall’estero
Mappa via Yeni Safak
L'impatto dei turchi che vivono all'estero, soprattutto in Germania, è stato cruciale nel voto - in particolare dopo il battibecco diplomatico scoppiato sulla campagna referendaria in Germania e Paesi Bassi. I “Sì” hanno toccato il 59 per cento, con punte di consenso nei paesi investiti dalle polemiche con Erdogan. Tuttavia ha votato poco meno del 50 per cento dei circa 1,4 milioni di turchi che potevano esprimersi dalla Germania.
“L'elemento più importante nell'agenda del governo nelle prossime settimane sarà probabilmente l'Unione europea”, scrive David Barchard su Middle East Eye, in particolare bisognerà tenere d’occhio la proposta di reintrodurre la pena di morte. Bruxelles è molto fredda. Poche ore dopo l'annuncio del risultato, Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, ha rilasciato una dichiarazione molto critica firmata anche da Federica Mogherini, l'alto Commissario agli Affari esteri dell'Ue. Invece delle congratulazioni che Ankara si aspettava, Juncker ha promesso indagini dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) sulle presunte irregolarità elettorali e invitato la Turchia a rispondere alle preoccupazioni del Consiglio europeo.
Si può pensare che l’immigrazione turca in Germania, che risale agli anni in cui a fuggire dal paese erano i più religiosi, oppressi dal regime laicista di Atatürk, sostenga con forza le politiche di Erdogan. Gökay Sofuoglu, presidente della comunità turca in Germania, ha espresso preoccupazione per il livello di appoggio alla riforma e ha sostenuto che si dovrà "trovare il modo di coinvolgere di più le persone che vivono in libertà in Germania e però vogliono l'autocrazia in Turchia”.
l'editoriale dell'elefantino