Foto LaPresse

Stoccolma e gli alibi dell'occidente quando si parla di terrorismo

Claudio Cerasa

Camion sulla folla, strage nella capitale della Svezia. Capiremo meglio se il camion è o no l’ultimo atto di una guerra di civiltà che si sta combattendo, ma a prescindere dal caso svedese l’occidente dovrebbe imparare ad aprire gli occhi

La matrice dell’attentato terroristico che ha colpito Stoccolma non è ancora definita, ma la dinamica non lascia molti dubbi: alle ore 15, alcuni pedoni (almeno quattro morti e una decina di feriti) sono stati travolti da un camion che è finito contro la folla nei pressi di un centro commerciale situato in una strada pedonale stipata di persone, nel cuore della capitale della Svezia. La dinamica è identica a quella adottata lo scorso anno da alcuni soldati dello Stato islamico a Nizza (14 luglio) e a Berlino (19 dicembre) e potrebbe non essere casuale che dopo l’attentato di Londra (22 marzo) e dopo l’attentato di San Pietroburgo (3 aprile) un camion abbia fatto una strage pochi giorni dopo il lungo discorso con il quale il nuovo portavoce dello Stato islamico (Abu Hassan al Muhajir) ha invitato militanti e simpatizzanti dell’Isis a compiere in tutto il mondo attentati terroristici.

 

Nella giornata di sabato la dinamica dell’attentato di Stoccolma sarà più chiara ma già in questo momento è possibile mettere insieme alcune considerazioni che riguardano un’attitudine molto particolare scelta dall’opinione pubblica europea per affrontare la nuova normalità degli attentati terroristici: la rimozione del trauma, la ricerca di un alibi, il tentativo di trasformare una strage in un problema legato all’emergenza immigrazione, alle pecche dell’intelligence, all’apertura dei centri storici ai Suv o ai camion, e il conseguente tentativo di trasformare gli attentati in fenomeni tutto sommato circoscrivibili. E’ stato un incidente. E’ stato un depresso. E’ stato un pazzo. E’ stato un lupo solitario. Chiudere gli occhi di fronte al terrore è un istinto primitivo, quasi naturale, così come scaricare su se stessi le responsabilità altrui è un modo facile, semplice, per illudersi che la risoluzione dei problemi dipenda da noi e non da altri.

 

Non sappiamo se l’attentato terroristico di venerdì abbia o no una matrice islamista ma sappiamo che l’atteggiamento delle classi dirigenti, dell’opinione pubblica e di una buona parte della politica oggi tende a deviare l’attenzione dal cuore del problema, dal fulcro della questione. Che è drammaticamente semplice: per aggredire il fondamentalismo islamico bisogna centrare il cuore della questione e la questione è che la nostra epoca è caratterizzata da uno scontro tra due imperi. Il primo impero è quello islamista: è un impero che ha una sua declinazione violenta e molte ramificazioni politiche e tende a uccidere in ogni angolo del mondo gli infedeli non spinto da una reazione a un atto ostile dell’occidente ma spinto da una volontà omicida giustificata da una precisa interpretazione del Corano (i miscredenti vanno colpiti “tra capo e collo”, Corano, VIII, 2). Il secondo impero è quello occidentale, quello sotto attacco, quello in cui viviamo oggi. Ed è un impero, questo, che ha scelto di nascondere la verità ai suoi cittadini (la guerra di religione) e che ha deciso di imboccare la via minimalista (e negazionista) per affrontare la minaccia dell’islam fondamentalista. E così lo Stato islamico si combatte, ma non con una violenza incomparabilmente superiore a quella messa in campo dai jihadisti.

 

L’esportazione della democrazia è stata cancellata dai libri di storia e difficilmente sarà Donald Trump a rimetterla in cima all’agenda dell’occidente. I regimi teocratici vengono sistematicamente difesi e mai messi davvero in discussione attraverso azioni politiche finalizzate a combattere quelle realtà in cui blasfemia e apostasia sono punite ancora con la violenza e a volte con la morte. La presenza di una forma di violenza esplicita in alcuni passaggi del Corano è un tabù che va sistematicamente cancellato e non affrontato, e chiunque metta in relazione la parola islam con la parola violenza rischia di essere scomunicato dal tribunale del popolo. Ecco: capiremo meglio se il camion che si è schiantato in un centro commerciale di Stoccolma è o no l’ultimo atto di una guerra di civiltà combattuta tra due imperi. Ma a prescindere dal caso svedese l’occidente dovrebbe imparare ad aprire gli occhi e prima di continuare a giocare con gli alibi avrebbe il dovere di mettere da parte una frase perfetta dell’eretica Ayaan Hirsi Ali: “Il nemico non è solo il terrorismo ma l’idea di cui il terrorismo è il prodotto”. E quando si uccide in nome dell’islam non si può trasformare una strage in un incidente stradale.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.