Il presidente argentino Mauricio Macri in una conferenza con il primo ministro spagnolo Rajoy (foto LaPresse)

In Argentina, i sindacati peronisti dichiarano guerra al liberale Macri

Angela Nocioni

Dopo un anno di tregua fragile, il presidente argentino vede iniziare una nuova stagione di scioperi generali e mobilitazioni spesso violente. Come sempre, c’entra la politica

Rotta la tregua sindacale con il governo in Argentina. Non scioperano soltanto i calciatori delle serie minori, che dicono di non ricevere lo stipendio da un anno. Scioperano anche i maestri. L’anno scolastico inizia con 48 ore di paralisi nelle scuole. Gli altri grandi settori dell’impiego pubblico hanno annunciato mobilitazioni ovunque, sono già iniziati i blocchi stradali di protesta. I sindacati stanno scegliendo il giorno per lo sciopero generale.

 
Non si tratta soltanto della protesta per le inevitabili conseguenze sociali di medio periodo della revoca di quasi tutte le sovvenzioni pubbliche ai principali consumi di base garantiti dai governi Kirchner, per esempio al consumo dell’energia elettrica (il governo del liberale Mauricio Macri ha annullato il sussidio costato carissimo alle casse argentine e le bollette sono rincarate fino al 500 per cento). Si tratta soprattutto della rottura politica di un fragile equilibrio concesso l’anno scorso dai potentissimi sindacati peronisti di varie correnti all’allora neopresidente Macri, ex presidente del Boca Junior, figlio di un immigrato italiano (Franco Macri, uno dei principali imprenditori dell’America latina) il primo non peronista arrivato alla presidenza dell’Argentina democratica dopo Raul Alfonsín, che governò dal 1983 al 1989 e di scioperi generali contro ne contò 13.

Finora a Macri era riuscito molto bene il difficile gioco di mantenere buoni i principali sindacati peronisti. Aveva silenziosamente trattato con i deputati e senatori rappresentanti dei settori sindacali in parlamento versando milioni alle loro Obras sociales, le assicurazioni sanitarie legate ai sindacati argentini, eredità dei tempi del generale Perón. Aveva stretto una relazione politicamente tanto pericolosa quanto utile con il capo del sindacato dei camionisti, Hugo Moyano. Aveva addirittura portato con sé in viaggio di stato in Spagna alcuni sindacalisti tra i quali il temibile Momo Venegas, per mostrare agli investitori spagnoli che l’epoca della pace sociale stava tornando in Argentina. Prospettiva che era sembrata reale nel marzo scorso, quando, per la prima volta dopo decenni, l’anno scolastico era cominciato regolarmente in tutto il paese.

 
L’avvicinarsi delle elezioni di medio termine di ottobre ha però convinto i sindacati peronisti a iniziare la lotta interna per decidere chi sarà nei prossimi mesi il leader dell’opposizione antimacrista, visto che la famiglia Kirchner è messa fuori gioco nella corsa alla leadership a causa dei processi giudiziari in corso. E quindi in piazza si è aperta la stagione delle proteste contro il governo.


Proteste a Buenos Aires contro il governo Macri (foto LaPresse)


L’aggravamento della povertà è innegabile. I dati governativi confermano che ci sono 13 milioni di poveri in un paese di 42 milioni di persone. Secondo l’ultimo rapporto della Università cattolica argentina, che da anni è la fonte più rispettata per la fotografia sociale del paese, si è passati dal 29% della fine del 2015 al 33% nel terzo trimestre del 2016. L’inflazione è arrivata al 40%, ai livelli del 2002, l’anno dopo la peggior crisi economica della storia argentina.

  
Il settore imprenditoriale è ancora saldamente dalla parte del governo. L’agroindustriale è stato benedetto dalla decisione, economicamente inevitabile, dell’annullamento del cambio fisso fittizio con il dollaro e dalla conseguente svalutazione del peso, la moneta nazionale, che ha determinato una grande crescita del profitto di chi esporta e riceve pagamenti in dollari. L’abbassamento delle tasse sull’export di minerali e di prodotti agricoli (in particolare grano, miglio e soia) ha soddisfatto gli esportatori.

La politica di riduzione della spesa - che Macri rivendica come necessaria perché, dice, “appena siamo arrivati al governo abbiamo trovato le casse vuote, sarebbe irresponsabile continuare a sovvenzionare politiche simili senza avere i soldi per farlo” – ha però duramente colpito la classe medio-bassa metropolitana in cui Macri ha raccolto voti determinanti per vincere le ultime presidenziali.

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