Una veduta delle rovine di Palmira

I dati dei bombardamenti a Palmira dicono: Trump + Putin

Daniele Raineri

I jet americani hanno spianato la strada, con molta discrezione, all’offensiva russo-assadista

Roma. Giovedì un’offensiva militare molto veloce ha riconquistato la città di Palmira, in Siria, che a dicembre era caduta di nuovo in mano allo Stato islamico. E’ stata – quasi – la prima operazione congiunta e condotta con molta discrezione da America e Russia, entrambe schierate di fatto assieme alle forze filogovernative del presidente Bashar el Assad. Quando si dice “operazione congiunta” non ci si riferisce all’offensiva di terra, che come al solito è stata affidata a un conglomerato bizzarro di milizie, sei straniere e ventuno siriane, più le Guardie rivoluzionarie iraniane – e c’era anche l’esercito siriano. S’intende invece la campagna aerea americana che per quasi tre mesi ha martellato le posizioni e i veicoli dello Stato islamico dentro e attorno a Palmira. Se si consultano i rapporti della missione Inherent Resolve – che ogni giorno spiegano dove hanno bombardato i jet americani in Siria e in Iraq – si leggono note come queste: “28 febbraio: due strike hanno distrutto cinque carri armati vicino Palmira. 26 febbraio: distrutti due carri armati, cinque veicoli e un edificio occupato dall’Isis vicino Palmira. 25 febbraio: presa di mira un’unità tattica dell’Isis, distrutti un veicolo e una jeep armata vicino Palmira”. E così via. In pratica gli aerei americani hanno azzerato il bottino di guerra accumulato dallo Stato islamico a metà dicembre, quando durante la seconda conquista di Palmira il gruppo aveva saccheggiato le basi abbandonate in fretta e furia (i video mostrano i piatti ancora pieni nelle mense) e aveva messo le mani su abbastanza armi per equipaggiare un piccolo esercito. Questa è una lista incompleta: quarantaquattro carri armati, sette veicoli blindati, sette cannoni di grosso calibro e tonnellate di munizioni, di razzi e di missili anticarro usati per far saltare i corazzati dei nemici.

 

Questa campagna aerea americana è cominciata con un presidente, Barack Obama, ed è continuata con un altro, Donald Trump, a partire dal 20 gennaio. Perché “quasi congiunta”? Perché non si può dire ancora che i bombardamenti fossero condotti assieme, considerato che americani e russi volano e operano ancora in un regime di indifferenza reciproca chiamato “deconfliction” – che vuol dire che non si danno disturbo gli uni con gli altri – ma in questo caso lo scopo della campagna era di certo immediato e chiaro. A dicembre lo stesso comandante americano, Stephen Townsend, aveva detto che sarebbero stati loro a occuparsi di neutralizzare le armi finite in mano come bottino di guerra allo Stato islamico – e verrebbe da dire che l’abbiano fatto loro perché dispongono di armi più precise di quelle russe, che non avrebbero salvato il poco che resta dei monumenti antichi di Palmira. E’ ancora poco per parlare di una svolta trumpiana della guerra in Siria, ma di fatto l’operazione Inherent Resolve ha spianato la strada al ritorno dei filogovernativi alleati della Russia (iraniani inclusi).

 

Il presidente Trump durante la campagna elettorale aveva detto che il suo obiettivo prioritario è fare la guerra all’Isis e che Assad combatte l’Isis. Che gli americani abbiano fatto uno sforzo aggiuntivo per aiutare la ripresa di Palmira si legge nei dati, che segnano a gennaio e febbraio due record di fila per quanto riguarda i bombardamenti in Siria. A febbraio sono stati 46 (su 548) soltanto su quel fronte specifico di Palmira che – almeno dal punto di vista nominale – fa capo ad Assad. A questo dato se ne può legare un altro, anche questo significativo: a febbraio i ribelli siriani aiutati dall’America hanno sparato soltanto sei missili controcarro Tow – che negli anni passati indicavano il sostegno che ricevevano dagli Stati Uniti. E’ un picco negativo, non ne avevano mai sparati così pochi, tranne nell’aprile 2016. Nell’ottobre 2015 ne avevano usati 115. Questo vuol dire che stanno combattendo molto meno rispetto a prima e che sono ripiegati sulle loro posizioni – perché sono messi in crisi dallo strapotere delle fazioni islamiste e di quelle estremiste. I dati dicono che i ribelli sono accartocciati e che gli assadisti si sono ripresi l’area che avevano perso a favore dello Stato islamico. Il gruppo terrorista ha ceduto con più velocità di quanto si pensava e questo indica che le sconfitte su tutti i fronti cominciano a fiaccarlo, perde troppi uomini e troppi mezzi, da al Bab – vicino al confine con la Turchia – a Mosul ovest, in Iraq. Se gli assadisti si fermeranno a Palmira e non affronteranno la grande sacca di Stato islamico sulle montagne attorno alla città, soprattutto a nord, rischiano di perdere la città per una terza volta. 

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)