Theresa May (foto LaPresse)

Decifrare il conservatorismo di May. L'analisi di tre esperti

Gabriele Carrer

Richard Carr, Ryan Shorthouse e Robert Colvile analizzano le scelte e la visione politica del premier britannico

Milano. Il Regno Unito che si stacca dall’Unione europea ha molte fratture anche al suo interno, come hanno di recente raccontato le firme del magazine New Statesman, senza soffermarsi sulla divisione destra e sinistra ma apertura e chiusura, città e campagna, laureati e no, proprietari e affittuari, bianchi e no, vecchi e giovani. Secondo Richard Carr, storico della Anglia Ruskin University e autore di diversi saggi sul mondo conservatore, per curare le ferite del Regno (che sono simili in tutto l’occidente), contrastare l’ascesa dei populismi e forgiare così il suo nuovo conservatorismo, Theresa May, premier britannico, avrà necessità di agire non soltanto sull’immigrazione. In un colloquio con il Foglio, Carr dice che “il vero test, come per ogni nuovo conservatorismo, riguarderà la sfera economica. May è disposta a intervenire per frenare i fallimenti del mercato nei settori dell’energia, delle ferrovie, e altrove?”. E ancora: riuscirà ad aumentare le tasse o il debito pubblico se l’economia vacillerà? Il “national living wage”, il salario orario minimo garantito agli over 25, continuerà ad aumentare come promesso? Nei primi sei mesi a Downing Street, la May ha promesso risposte alle classi in difficoltà attraverso un’economia che funzioni per tutti e non soltanto per alcuni privilegiati. “Abbiamo avuto la retorica ma non ancora i dettagli”, dice Carr.

“Dobbiamo difendere la democrazia liberale e il ruolo fondamentale che ha avuto nel diffondere pace e prosperità nel mondo”, rilancia Ryan Shorthouse, fondatore e direttore del think tank liberal-conservatore Bright Blue ed ex consulente del Partito conservatore: “Le democrazie liberali hanno portato grandi benefici nella vita di tutti”. Prima di tenere il suo discorso sul divorzio europeo, la May aveva lanciato la sua idea, la cosiddetta “shared society”, evoluzione ancora non chiara della già poco chiara “Big Society” cameroniana. “Per quanto rimanga ancora una visione imprecisa, questa ricetta sembra suggerire una maggiore volontà di far intervenire lo stato rispetto a quanto promesso dal predecessore David Cameron, più orientata al sostegno all’attività del volontariato, della società civile e dei privati”, spiega Carr. Nel breve termine ciò si potrà tradurre in un approccio più normativo, specie sul settore energetico; nel lungo periodo, invece, se la Brexit dovesse avere effetti negativi sull’economia britannica, potrebbero essere piccoli aumenti di spesa pubblica, aggiunge Carr. Simile è il giudizio che arriva da Shorthouse che vede nella proposta del premier uno spostamento un po’ più a sinistra rispetto a Cameron relativamente alla possibilità di un intervento “positivo” dello stato in economia, abbandonando un approccio alla società individualistico a favore di una visione più sociale e di interdipendenza. Robert Colvile, ex capo delle pagine degli editoriali del Telegraph e oggi direttore di CapX, invece, sottolinea la volontà di Theresa May di distaccarsi prima di tutto da David Cameron: “Mentre lui era molto preoccupato per i poveri della società, l’attenzione di May sembra essere volta maggiormente alle classi medio-basse, ossia coloro che lottano per tirare avanti”, dice Colvile al Foglio.

 

L’idea di Theresa May, analizza Shorthouse, è fondata nel centre-ground della politica britannica, a partire dall’idea che non è tutto free-market ma che c’è anche un ruolo dello stato: per questo il primo ministro sta cercando di trasmettere una maggior responsabilità sociale al suo partito e alla sua azione di governo. Così, sostiene Colvile, con il Labour visto ormai troppo a sinistra da buona parte dei britannici e i liberaldemocratici autoconfinatisi nella nicchia del partito anti Brexit che difficilmente avrà successo fuori dalle grandi città, si aprono praterie politiche cui Theresa May può puntare. “I conservatori sono saldamente seduti nel centre-ground della politica britannica”, evidenzia lo storico Carr. “Ma May avrà bisogno di convertire la sua retorica sulla ‘shared society’ in azione poco tempo. Altrimenti finirà per apparire senza timone”.

 

Nel definire il suo conservatorismo, il primo ministro sta affrontando nel suo programma molte delle preoccupazioni che trovano eco nelle proposte populiste da sinistra e da destra, come testimonia la sua popolarità alle stelle, sottolinea Colvile. “Ma ha bisogno di mantenere le sue promesse. Non credo che lei stia agendo guidata dall’obiettivo di sconfiggere il populismo. Credo, invece, che si muova in questa direzione perché guidata dalla sua personalità, dalla sua formazione e dalla sua fede”. Conciliare la necessità e la richiesta degli elettori di confini controllati con l’apertura verso l’economia globale sarà fondamentale per la Gran Bretagna in futuro, dice al Foglio Carr. Se però con l’avvio dei negoziati per l’uscita entro marzo il primo punto sembra essere più alla portata del premier come sostengono gli intervistati, rimane da capire se e come nascerà la “shared society” che dovrà riformare la società e l’economia della Gran Bretagna. E così, all’enorme punto interrogativo posto dall’Economist in merito alle (poche?) certezze del primo ministro sulla Brexit con il titolo “Theresa Maybe”, se ne aggiunge un’altra: ce la farà Theresa a realizzare un paese “per tutti”?

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